Zimbabwe: "Via Kenyana" per Harare
Pietro Del Soldà
Tra Robert Mugabe e Morgan Tsvangirai fredda stretta di mano e protocollo d’intesa per pianificare la pace.
Lo Zimbabwe allo stremo sceglie “la via kenyana”, quella del governo di unità nazionale. Ieri, nel giorno in cui la banca centrale ha emesso la prima banconota da 100 miliardi di dollari dello Zimbabwe, una cifra da capogiro che però non basta per comprare una pagnotta, i due nemici irriducibili, il presidente Robert Mugabe e il leader del Movement for Democratic Change Morgan Tsvangirai, si sono seduti allo stesso tavolo per iniziare a parlare di pace e di condivisione del potere. Non accadeva dal 1999, quando Tsvangirai fondò il partito che nelle elezioni del marzo scorso ha strappato la maggioranza in parlamento allo Zanu PF, il partito del 84enne padre dell’indipendenza. Ha prevalso dunque la linea invocata dai paesi africani, preoccupati dalla violenza dilagante nel paese e dalla crisi economica che sta provocando una nuova emorragia di profughi verso i paesi limitrofi. L’incontro, come richiesto da Tsvangirai, non è avvenuto in una sede governativa ma a porte chiuse in una sala del Rainbow Towers Hotel di Harare. Il leader dell’opposizione infatti, dopo esseri ritirato dal ballottaggio dello scorso 27 giugno e avere poi mantenuto una linea di ferma condanna di Mugabe, non poteva accettare che l’evento apparisse come una vittoria diplomatica dell’avversario. Ciò avrebbe aumentato un rischio che il leader dell’Mdc si trova comunque a correre: quello di allentare la pressione internazionale su Mugabe, con l’inevitabile conseguenza di una pur parziale legittimazione della sua farsesca vittoria nel ballottaggio.
I due leader, scuri in volto e divisi al tavolo solo dalla figura del contestatissimo mediatore, il presidente sudafricano Mbeki, hanno firmato un protocollo d’intesa che fissa un ultimatum di due settimane entro il quale si impegnano ad avviare negoziati diretti. Il documento di cinque pagine non presenta ancora indicazioni precise sul percorso che potrà condurli ad una condivisione del potere e non parla del futuro politico di Mugabe: le distanze rimangono dunque abissali. Infatti, mentre Mugabe chiede di essere riconosciuto come presidente, Tsvangirai insiste nelle stesse richieste presentate dopo le elezioni: fine della violenza politica, rilascio dei sostenitori dell’Mdc attualmente in carcere, ripresa degli aiuti umanitari alla popolazione che ormai muore di fame e riconoscimento della nuova maggioranza politica in parlamento. Nulla di nuovo, dunque, almeno per ora. Ma come si spiega allora la nuova tattica conciliatoria di Tsvangirai? La risposta va cercata nella composizione del team di mediatori. L’Mdc chiedeva da tempo che Mbeki, il cui atteggiamento è parso spesso troppo solidale con il vecchio alleato Mugabe, venisse sostituito o perlomeno affiancato nella sua opera di mediazione. E così è stato: l’incontro di ieri è stato reso possibile dall’entrata in scena di mediatori dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite. E’ stato proprio il mediatore Onu Haile Mekerios il primo a confermare la notizia del possibile disgelo. “Vogliamo un governo di transizione che crei una piattaforma per democratizzare la nostra società ed arrivare così a nuove elezioni, finalmente libere e regolari”: queste parole del portavoce dell’Mdc riassumono il senso dell’incontro di ieri. I più ottimisti ci credono, ed immaginano che da Harare possa accadere qualcosa di simile a quanto avvenuto in Kenya, dove la formazione di un governo di unità nazionale guidato dai due leader antagonisti, Kibaki e Odinga, ha posto fine ai violentissimi scontri seguiti alle elezioni presidenziali dello scorso dicembre. Altri osservatori temono invece che tutto ciò possa solo “prolungare l’agonia del paese”. I prossimi giorni potrebbero rivelarsi decisivi. Quello che più conta, e in cui è necessario sperare, è che l’incontro di ieri consenta almeno di sbloccare la distribuzione di cibo e medicinali. Le ong straniere infatti sono ancora inattive, dopo che Mugabe ha ordinato loro di fermarsi accusandole di sfruttare l’azione umanitaria per dare sostegno all’Mdc. Il risultato è che oggi 5 milioni di persone rischiano di morire di fame ed hanno bisogno di cibo e medicine nell’immediato. Oggi, non domani e tantomeno tra due settimane. Nelle stanze a cinque stelle del Rainbow Towers Hotel, forse, ieri si è acceso un barlume di speranza anche per loro.
Fonte: Lettera22, il Riformista
22 luglio 2008