Un tranquillo pensionato a Lazarevo
Emanuele Giordana - Lettera22
L’arresto clamoroso di Ratko Mladic in Serbia chiude il cerchio sui responsabili della guerra di Bosnia dopo vent’anni di impunità.
Belgrado è una bella città dove vivere. La sera ci si può allungare sul fiume dove una pletora di ristoranti allegri consente di ammirare gli ampi giardini che costeggiano parte della Sava o del Danubio: le coppie di giovani amanti o gli anziani con bambini che osservano le chiatte e si incamminano verso il Luna Park. Anche il generale Ratko Mladic, il macellaio di Sreberenica, non aveva difficoltà a venire da queste parti pur se apprezzava ristoranti della capitale serba assai più lussuosi e ben frequentati. Aveva un appartamento in città e non faceva molto mistero della sua ingombrante presenza, da molti salutata come quella di un eroe di guerra.
Così Ratko se la passava ancor meglio del suo capo, Radovan Karadzic, più di lui nell'occhio del ciclone. Poeta di Sarajevo e psichiatra prestato alla politica del nazionalismo panserbo che aveva fatto di lui l'icona della repubblica dei serbi di Bosnia, Radovan aveva eletto a domicilio-capitale la minuscola enclave turistica di Pale: cataste di legna, pinete innevate e chalet dall'aria innocua dove Mlatko e Radovan dovevano aver messo a punto, tra una slivovitz e un bicchiere di brandy italiano (molto in voga tra le élite jugoslave), lo spietato disegno della pulizia etnica praticata con l'arte del cecchinaggio sulla poco distante Sarajevo. Mlatko però aveva compiti più ambiziosi.
Di Sarajevo si limitava a guardare le strade che dalle trincee sopra la città, dove ancora restano i segni delle strutture messe in piedi per le Olimpiadi invernali del 1984, apparivano lunghi cunicoli per topi spaventati, costretti ogni giorno a evitare le pallottole durante le corse per fare la spesa o prendere l'acqua. Ratko doveva architettare il disegno militare che aveva l'obiettivo di raggiungere due risultati: creare lo stato di fatto sul terreno che, una volta arrivati a un inevitabile negoziato, avrebbe sancito l'espansione dei serbo bosniaci a spese della Bosnia e della Croazia, allargando la frontiera della Grande Serbia; e ripulire i nuovi territori dalle genti non omologabili etnicamente o, per meglio, diverse per religione, l'unica vera differenza che esiste tra gli Slavi del Sud, una popolazione – croata, serba o bosniacca – che parla la stessa lingua e che ha meno distinzioni nei costumi di quante ve ne siano tra un siciliano e un trentino.
Mlatko (anche lui serbo di Bosnia dove nasce a Kalinovik nel 1942) e Radovan ce l'avevano in particolare coi musulmani anche perché il capo dei capi, il presidente serbo Slobodan Milosevic, aveva fatto della guerra ai musulmani, icona della Storia della Serbia, il riferimento ideale del ritorno sulla scena di una potenza annichilita e ora risorta che doveva risollevare la testa d'aquila in un'orgia di orgoglio nazionalista. All'occorrenza, Milosevic sacrificherà anche i serbi (lasciando liberi i croati di colpire la Krajna), ma i musulmani li lascia tutti a Mlatko che si distingue comunque anche contro i croati di Bosnia.
Per cinque anni va, ma alla fine la guerra si conclude con gli accordi di Dayton, la Grande Serbia si vede nel tempo addirittura diminuire i suoi confini, i serbi di Bosnia finiscono per essere solo una delle tre entità di un Paese libanesizzato e cencellizzato per Costituzione. Per M&R però l'impunità resta garantita. Garantita da Slobodan almeno sino alla sua cattura nel 2001. E' quando Milosevic viene trasferito all'Aja che le cose cambiano. Sembra carta straccia anche il patto scellerato – presunto o reale che sia – che consente ai protagonisti di una delle più nefande pagine della storia europea di entrare tranquilli nell'autunno della propria età anagrafica certi che i fantasmi delle fosse comuni saranno, più che un incubo per spiriti deboli, il conforto di una stagione di ricordi aurei che devono consegnare Milosevic, Karadzic e Mladic all'empireo dei grandi eroi slavi.
L'arresto di Karadzic nel 2008 è il segno che ormai non solo bisogna nascondersi ma che bisogna farlo bene. Che la rete di protezioni sta saltando, è minata alla base, non regge più. Ratko come mullah Omar. Questione di tempo. Ieri, nell'alba di Lazarevo.
Fonte: Lettera22, Terra
27 maggio 2011