Un altro giovane morto in prigione, stavolta per un video!


il Manifesto


Egitto, morto il fotografo e regista Shady Habash, in carcere da due anni per aver realizzato il video di una canzone che sbeffeggiava apertamente il presidente criticando senza sconti i primi quattro anni di governo al-Sisi alla vigilia delle elezioni


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«Un altro dei nostri giovani è morto in prigione», questo l’amaro commento della scrittrice e attivista Ahdaf Soueif alla notizia della morte del regista e fotografo Shady Habash, avvenuta ieri mattina. 24 anni, in prigione da due, «Shady si è sentito male in cella», scrive su Twitter il giornalista Abdelrahman Ayyash.

 

«I suoi compagni per un po’ hanno chiesto aiuto, ma le guardie e gli ufficiali non sono intervenuti fin quando lui non ha esalato l’ultimo respiro», è la prima ricostruzione di una morte tanto più tragica se si considera l’assurdità delle motivazioni con cui era stato arrestato.

 

HABASH SI TROVAVA nel carcere di massima sicurezza di Tora, a sud del Cairo, dal marzo 2018, semplicemente per aver realizzato il video di una canzone (intitolata ‘Balaha’) che sbeffeggiava apertamente il presidente criticando senza sconti i primi quattro anni di governo al-Sisi alla vigilia delle elezioni.

 

Il suo interprete, Ramy Essam, una presenza fissa sui palchi di Tahrir nel 2011, era diventato famoso trasformando gli slogan dei rivoluzionari in canzoni che a loro volta sono diventate dei tormentoni della piazza. All’epoca di Balaha, Essam si trovava già da quattro anni in esilio in Svezia per sfuggire alla repressione, ma per il regime l’affronto era evidentemente troppo grave e qualcuno avrebbe dovuto pagare.

 

A pochi giorni dall’uscita del brano, diventato subito virale, Habash veniva arrestato insieme all’autore del testo e al social media manager del cantante. Ieri, al momento della sua morte, il giovane regista era ancora in attesa di giudizio, dopo essere comparso innumerevoli volte davanti al procuratore che ogni 45 giorni ha sempre sistematicamente rinnovato il suo arresto, ma senza mai averlo chiamato a rispondere delle pesanti accuse di cui era incriminato. Un caso di censura dell’espressione artistica, certamente non isolato, che stavolta si è concluso nel peggiore dei modi. Amr Magdi, ricercatore di Human Rights Watch, in un primo momento ha anche accreditato l’ipotesi del suicidio.

 

SEI MESI FA Habash aveva scritto una drammatica lettera dal carcere: «Sono due anni che tento di ‘resistere’ da solo a tutto ciò che mi sta accadendo – sono le parole del giovane regista – perché io possa uscire da qui essendo ancora quella stessa persona che conoscete da sempre. Ma non ce la faccio ad andare avanti». E con grande lucidità continuava: «Resistere in prigione significa proteggere te stesso e la tua umanità da tutto ciò che vedi e vivi ogni giorno. O impedisci a te stesso di diventare pazzo, oppure muori lentamente», chiudendo con un’accorata richiesta di aiuto: «Ho bisogno più che mai del vostro sostegno». Anche se resta da chiarire cosa sia successo negli ultimi istanti di vita di Shady, certo è che la sua morte poteva e doveva essere evitata, dicono i tanti che oggi lo ricordano sui social.

 

LA CRISI DEL COVID ha di nuovo riacceso i riflettori sulla situazione delle carceri in Egitto. A rischio c’è la sorte non solo degli oltre 60.000 prigionieri politici, ma di tutta la popolazione carceraria, costretta a vivere in condizioni di sovraffollamento e gravi carenze igieniche e sanitarie.

 

Ad aggravare il dramma dei detenuti dall’inizio dell’epidemia c’è stata l’interruzione generalizzata delle visite e dei contatti con l’esterno.

 

Gli appelli per un’amnistia, che rimetta in libertà prima di tutto le migliaia di persone in attesa di giudizio e i prigionieri di coscienza, finora sono caduti nel vuoto. Diversi detenuti, tra cui il noto blogger e attivista Alaa Abdel Fattah, da alcune settimane sono entrati in sciopero della fame a oltranza.

 

Pino Dragoni

Il manifesto

3 maggio 2020

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