Uganda, tempo di dire basta
Alberto Tundo
Marce, petizioni, manifestazioni contro un governo giudicato corrotto e violento. Per Anne Mugisha il Paese è sull’orlo di una sollevazione popolare.
Membro di spicco del Forum for Democratic Change (il principale partito d'opposizione, ndr), vice segretaria per le Relazioni internazionali del partito, Anne Mugisha è anche un'esponente di una organizzazione, Activists for Change (A4C), in prima linea nella battaglia per ridare voce ai cittadini, per far cadere un regime, quello del presidente Yoweri Museveni, in carica da 25 anni, che non sembra aver intenzione di passare la mano. A Peacereporter ha raccontato il fermento che agita la società ugandese, speranze e paure di chi chiede un cambiamento.
Le notizie arrivate dall'Uganda nelle ultime settimane parlavano di proteste diffuse in tutto il Paese, di marce all'insegna dello slogan "Walk to Work", di una reazione violenta da parte delle forze di sicurezza e di arresti di attivisti e di leader dell'opposizione come Kizza Besigye. Il vento della primavera araba sta arrivando anche in Uganda?
Gli ugandesi vogliono liberarsi di un regime che è stato al potere per un quarto di secolo e che non ha migliorato in nulla le condizioni della popolazione. Il retroterra che ha permesso le rivoluzioni in Egitto e Tunisia, grosso modo esiste anche in Uganda. Durante gli ultimi 25 anni, il Paese ha avuto un solo leader. Certo, c'è stata una crescita economica molto forte ma le statistiche non riflettono il crescente gap tra ricchi e poveri. La ricchezza del Paese è concentrata nelle mani di pochi individui dell'elite al potere che non sono interessati ai problemi della gente comune. Le ultime quattro elezioni che hanno confermato Museveni si sono rivelate fraudolente e i tribunali lo hanno risconosciuto per due volte. Gli ugandesi hanno smesso di sperare di poter cambiare, attraverso le urne, un regime che sta diventando sempre più militarista e oppressivo. I giovani, che sono più della metà della popolazione, si sentono emarginati e senza prospettive, eppure vedono molta ricchezza intorno a loro. Le marce organizzate con la campagna "Walk to Work" erano un modo di esprimere questo scontento diffuso tra la gente comune e la classe operaia. Il mondo invece ha visto che la libertà di assemblea e di espressione in Uganda sono diventati crimini e che la polizia ha usato la forza per fermare la gente. Tutti questi fattori dicono che l'Uganda è sull'orlo di una sollevazione popolare.
Ma il Forum for Democratic Change, del quale lei è un membro di spicco, è una reale alternativa al sistema? In fondo il vostro candidato premier ha già sfidato il presidente Museveni per ben tre volte, nel 2001, nel 2006 e nel 2011.
La nostra è la battaglia di un popolo che lotta per riaffermare la propria supremazia su coloro che ci governano illegittimamente e in modo oppressivo. L'articolo 1 della Costituzione del 1995 dice che "Tutto il potere appartiene al popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione". Il comma 2 dice che "senza alcun limite per la clausola 1, l'autorità emana dal popolo ugandese. Il popolo deve essere governato secondo la propria volontà e con il proprio consenso". Costringere il governo a diventare responsabile di fronte al popolo e a guidare la transizione da una governance corrotta e cattiva ad una leadership che sia centrata sulla popolazione. Questo è il nostro obiettivo come Activists for Change. Chi sono gli individui che si assumeranno la leadership politica per questo cambiamento, non è importante. Non vogliamo nuovi liberatori per questo Paese. Abbiamo solo bisogno che le persone reclamino la propria superiorità sui propri governanti e sui presunti liberatori.
Ecco, lei ha menzionato Activists for Change, organizzazione della quale è un'importante esponente. Di cosa si tratta? Trova analogie con quei movimenti popolari di protesta sorti in Europa di recente? Cosa chiedete e a chi?
Si, sono un'attivista di Activists for Change. Abbiamo promosso una campagna popolare contro la corruzione nel governo, contro il caro-vita causato dall'inflazione galoppante e dall'assenza di una politica governativa per aiutare gli ugandesi a far fronte alla crescita dei prezzi dei carburanti. Il nostro approccio non è stato quello di riempire le piazze ma piuttosto abbiamo chiesto alla classe media di solidarizzare con i ceti meno abbienti che non possono più permettersi di prendere mezzi per andare a lavorare o che non riescono ad assicurare alle proprie famiglie più di un pasto al giorno. Oltre a questa dimostrazione di solidarietà, abbiamo condotto campagne sui media e attraverso petizioni contro la corruzione e lo sperpero di denaro pubblico.
A proposito di corruzione e sperpero di denaro, poche settimane fa si è svolta una sessione a porte chiuse durante la quale il parlamento ha discusso un aumento dello stipendio (120 mila dollari in più l'anno, ndr) e un'estensione dei benefit per i suoi membri. Qual è la posizione di A4C?
Ci siamo sentiti oltraggiati quando addirittura dopo le marce di aprile per il Walk to Work – nelle quali molte persone innocenti hanno perso la vita, tanti leader sono stati arrestati con brutalità e messi in galera, centinaia di attivisti detenuti – il parlamento nella sua prima sessione dopo le elezioni ha deciso di dare la priorità al proprio welfare. Allora abbiamo indirizzato una petizione allo Speaker e ai membri del parlamento perché rinunciassero ad ogni tentativo di aumentarsi la paga in un momento così difficile, consultabile all'indirizzo http://www.thepetitionsite.com/136/petition-against-increased-emoluments-for-members-of-parliament/. Stiamo pensando di organizzare un picchettaggio davanti al parlamento il 30 giugno per tenerlo sotto pressione affinché si concentri su ciò che interessa alla gente.
Veniamo alla politica estera, che lei segue con attenzione in qualità di vicesegretario per gli affari esteri dell'Fdc. L'Uganda sta giocando un ruolo importante in Somalia e, più in generale, ha ambizioni di leadership in una regione problematica come quella dei Grandi Laghi. Quali sono le sfide principali e qual è, e quale dovrebbe essere, l'agenda ugandese?
L'agenda ugandese dovrebbe avere al centro il negoziare la pace piuttosto che l'epandere i teatri di guerra nella regione dei Grandi Laghi e oltre. Negli ultimi 25 anni, l'Uganda ha avuto un ruolo chiave in ogni grande conflitto nella regione. Dall'invasione del Ruanda, alla guerra contro Mobutu Sese Seko dello Zaire (ora Repubblica democratica del Congo), alla liberazione del Sud Sudan, l'Uganda è sempre stata una base importante. Ma il parlamento non è mai stato chiamato a pronunciarsi su queste guerre. La popolazione non è mai stata consultata. Siamo entrati in guerra per la decisione arbitraria del comandante in capo e degli alti comandi. Eppure gli ugandesi hanno pagato un prezzo molto alto per il nostro coinvolgimento nelle guerre nei Paesi confinanti, incluso un attacco terroristico in cui sono morti un centinaio di persone quando al Shabaab attaccò civili a Kampala. Il regime crede nella dominazione militare e nell'espansionismo e il risultato è che ci sono numerosi report e sentenze di tribunale contro gli abusi da parte dei militari e lo sfruttamento delle risorse, soprattutto nel Congo orientale. Museveni è stato abile nel destabilizzare la regione ponendo allo stesso tempo l'Uganda come un centro di stabilità, pur avendo un ruolo importante nella destabilizzazione dei Paesi vicini. Il governo ha potuto mantenere questa posizione diabolica grazie al sostegno di governi stranieri, specialmente di quello americano, presentandosi come un importante alleato nella guerra al terrore. L'Uganda è percepito come il partner principale per fermare l'avanzata del terrorismo in Africa, combattendo contro le forze antiamericane in Somalia e Sudan. Fintanto che Kampala starà accanto agli Stati Uniti nella guerra al terrore, l'Occidenti ignorerà gli enormi abusi commessi dal governo contro i suoi cittadini. E' una battaglia che gli ugandesi, soprattutto quelli della diaspora, devono affrontare, per far capire ai nostri partner, di cui abbiamo bisogno per lo sviluppo, che al Shabaab è una minaccia ma non quanto lo sono le stesse forze di sicurezza.
Fonte: Peacereporter
26 giugno 2011