Tripoli li ha liberati. Ora tocca all’Italia
Stefano Liberati
I 205 cittadini eritrei rinchiusi il 30 giugno scorso sono oggi liberi, anche se per il momento bloccati in un’altra città in mezzo al Sahara, ma l’emergenza è solo rimandata: la soluzione trovata per i profughi di Braq è provvisoria.
Liberi ma bloccati. L’odissea dei 205 cittadini eritrei detenuti per 16 giorni nel centro di detenzione di Braq e rilasciati l’altro ieri sera dalle autorità libiche
sembra senza fine.
Dopo una notte, quella tra giovedì e venerdì, densa di incertezze e di colpi di scena, ora i ragazzi sono di fatto incastrati nella città sahariana di Sabha, con i soldati che gli impediscono di allontanarsi dal centro abitato. Possono circolare
liberamente, ma non possono uscire dalla città. È come se si trovassero in libertà vigilata.
Questa situazione di stallo è il coronamento di una giornata, quella cominciata l’altroieri notte, degna di un romanzo di Kafka. Verso l’una del mattino, i 205 ragazzi sono stati caricati su alcuni pulmini in direzione di Sabha. «Ci hanno detto che ci portavano a Tripoli in aereo», racconta uno dei ragazzi al telefono. «Noi temevamo che ci volessero rimpatriare con l’inganno in Eritrea». Invece,
è successa una cosa diversa: una volta raggiunta Sabha, gli autisti dei pulmini hanno scaricato gli eritrei e sono semplicemente scomparsi.
Usciti da Braq dopo 16 giorni, i 205 sventurati si ritrovavano così in una città sconosciuta, e per di più senza alcun documento, dal momento che le autorità
libiche non gli avevano dato quel permesso di soggiorno che era stato loro promesso nei giorni precedenti.
I ragazzi sono rimasti nel più completo abbandono fino alle 4 del mattino, quando è arrivata la polizia, che li ha condotti in un centro di detenzione per passare la notte. Alle 7 gli eritrei sono stati invitati a lasciare il centro. In un
turbinio di colpi di scena, alla fine è stato fornito a tutti il tanto agognato documento per circolare liberamente in Libia. Si tratta di un permesso di soggiorno con validità di tre mesi. «I funzionari dell’immigrazione ci hanno detto
che con quello potevamo andare dove volevamo in Libia. Anzi, ci hanno caldamente invitato ad andare via da Sabha».
Ma, una volta raggiunta la stazione degli autobus, i ragazzi hanno scoperto che nessuno li voleva portare a Tripoli. «Il vostro permesso è valido solo per questa regione», hanno detto loro gli autisti. Un pulmino che si è avventurato verso il confine della città è stato effettivamente rimandato indietro dai soldati.
Una situazione assurda, complicata anche dal fatto che era venerdì, e quindi giornata festiva in Libia. Nessuno era in grado di farsi carico dei 205 ragazzi, che si sono trovati a vagare per la città e ad ingegnarsi per trovare un luogo
dove trascorrere la notte.
Al di là dell’odissea del loro rilascio, rimangono comunque diversi punti interrogativi sulla sorte dei 205 ex reclusi di Braq, e degli altri cittadini eritrei liberati contestualmente dagli altri centri di detenzione – circa 400 persone in
tutto, secondo stime delle autorità di Tripoli confermate dalla comunità eritrea. Il loro permesso è valido solo tre mesi. Allo scadere del documento, saranno costretti a chiedere un visto, per avere il quale dovranno prima recarsi all’ambasciata eritrea e farsi rilasciare un passaporto. Un’eventualità impossibile, dal momento che gli eritrei sono richiedenti asilo in fuga dal proprio paese, dove l’emigrazione è considerata un crimine di stato e punita severamente.
Il futuro prossimo sembra quindi destinato ad essere un ritorno alla casella di partenza per gli eritrei di Libia: tutto lascia pensare che, allo scadere dei tre mesi, piomberanno nuovamente nella clandestinità e saranno costretti a nascondersi per fuggire alle retate e non finire nuovamente nei centri di detenzione. A meno che qualche stato terzo non si faccia carico di loro e li accolga. La settimana scorsa, il governo italiano si è detto disposto ad accettare una parte dei richiedenti asilo, per bocca del sottosegretario agli
esteri Stefania Craxi. Poi la questione è caduta nel dimenticatoio.
Loro, gli ex reclusi, ripetono quello che hanno sempre detto dall’inizio della loro odissea: «Non vogliamo rimanere in Libia. Vogliamo andare in un paese che
ci garantisca la protezione internazionale. Qui non ci sentiamo tutelati». Quanto sta accadendo in queste ore a Sabha sembra l’ennesima conferma che i loro timori sono tutt’altro che infondati.
Fonte: il Manifesto
17 luglio 2010