Il Sudan alla svolta


Nigrizia.it


Potrebbe essere vicina la resa dei conti per il regime di Omar Hassan al-Bashir che prese il potere nel 1989 con un colpo di stato militare, appoggiato dal movimento islamista guidato da Hassan el Turabi, ideologo dell’islam politico secondo la dottrina dei Fratelli musulmani, scomparso pochi anni fa. La rivolta popolare, cominciata il 19 dicembre […]


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sudanProteste

Potrebbe essere vicina la resa dei conti per il regime di Omar Hassan al-Bashir che prese il potere nel 1989 con un colpo di stato militare, appoggiato dal movimento islamista guidato da Hassan el Turabi, ideologo dell’islam politico secondo la dottrina dei Fratelli musulmani, scomparso pochi anni fa.

La rivolta popolare, cominciata il 19 dicembre per l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, si è ben presto trasformata nella richiesta di un cambio di regime, guidata dall’associazione dei professionisti sudanesi, (Sudanese professionals association – Spa) e dalle maggiori forze di opposizione che hanno congiuntamente firmato la Dichiarazione per la libertà e il cambiamento (Declaration of freedom and change), il manifesto politico dell’insurrezione pacifica in corso.

 

La “svolta” del 6 aprile

Dopo mesi di dimostrazioni nelle città più importanti del paese, il 6 aprile è stata convocata la manifestazione di massa che potrebbe davvero costituire una svolta nella pressione popolare per le dimissioni del presidente e del suo governo. Il 6 aprile è una data simbolica nella storia sudanese. Il 6 aprile del 1985, in circostanze molto simili a quelle attuali, fu deposto Jafa’ar Nimeiri che aveva guidato il paese dal maggio del 1969, quando aveva preso il potere con un colpo di stato militare che rovesciò il governo di Ismail al-Azhari.

Affollate manifestazioni si sono svolte nelle maggiori località sudanesi. La folla radunatasi a Khartoum si è diretta al quartier generale dell’esercito, nelle vicinanze dell’ufficio del presidente e di altri uffici governativi. L’intento, perseguito in vari modi fin dall’inizio delle proteste di piazza, è quello di convincere l’esercito ad appoggiare la rivolta, ben sapendo che da tempo è tutt’altro che compatto nel sostenere il governo.

Le forze armate non hanno mai gradito la politica del partito del presidente, il National congress party (Ncp), di moltiplicare le milizie paragovernative – tra le più note, le Popular defence forces e le Rapid support forces – che da un lato sminuivano il potere dell’esercito regolare e dall’altro costituivano una massa di manovra politica che rispondeva direttamente al presidente.

All’inizio della rivolta popolare, al-Bashir ha cercato di riprendere in mano le forze armate, mandando in pensione diversi generali e sostituendoli con altri, a lui fedeli. Ha anche cercato di ingraziarsi i militari di carriera, affidando loro posti di governo, e i governatorati di tutti gli stati federali. Ma evidentemente l’opposizione sa di poter contare su dissidi interni alle forze armate.

 

L’incognita militare

Davanti al portone principale del quartier generale dell’esercito si sta giocando il destino del paese. La folla, su indicazione dei leader dell’opposizione presenti, ha deciso di presidiare pacificamente la piazza fino alla caduta del regime. Non si è mossa da sabato mattina, anzi, è aumentata fino a raggiungere, secondo l’opposizione, le 600mila persone. Certo le foto dall’alto che girano sui social media sono indicative della grande mobilitazione in atto. I dimostranti ricevono acqua e cibo da altri cittadini che partecipano così all’azione e, secondo testimonianze, anche da alcune unità delle forze armate stesse.

Lunedì pomeriggio i leader del cartello Dichiarazione per la libertà e il cambiamento, hanno tenuto una conferenza stampa davanti ai dimostranti. Hanno dichiarato di aver nominato un consiglio, formato da 25 persone, con il mandato di facilitare le trattative con l’esercito per una transizione pacifica ad un governo civile provvisorio. Lo stesso consiglio avrà contatti con la comunità internazionale, invitata a rispettare e sostenere il volere dei sudanesi.

Il presidio è stato ripetutamente attaccato dalle forze di sicurezza e difeso dall’esercito. La notte di lunedì, di fronte all’ennesimo attacco ai cittadini disarmati e pacifici, sono stati aperti i cancelli del quartier generale, la parte che ospita la marina militare, secondo alcuni testimoni, per permettere ai dimostranti di mettersi al riparo mentre membri dell’esercito, per ore, hanno ingaggiato le forze di sicurezza, impedendo loro di nuocere ai cittadini inermi e di disperdere la manifestazione.

Il ministro della Difesa nega che ci siano stati scontri tra esercito e miliziani. Afferma che gli spari provenivano dai dimostranti ma foto e video postati sui social media non possono essere smentiti: i dimostranti si riparano dietro a uomini in divisa dell’esercito, facilmente riconoscibili dal berretto rosso. Il bilancio degli scontri è gravissimo. Secondo il Comitato medico centrale, espressione del coordinamento dell’opposizione, dall’inizio del sit-in i morti sarebbero ormai 21: 16 civili e 5 soldati. I feriti sarebbero 153, alcuni molto gravi, e centinaia gli arresti. Ma, a quanto sembra, per ora i dimostranti non hanno nessuna intenzione di tornare a casa.

 

Scollamento generalizzato

Con il passare delle ore risulta sempre più evidente lo scollamento tra gli alti gradi dell’esercito e gli ufficiali a diretto contatto con la truppa. I comandanti continuano a dire che l’esercito ha ordine di intervenire con la forza, ma il quartier generale stesso è diventato un luogo di riparo per i civili contro gli attacchi delle forze di sicurezza. Alcuni ufficiali hanno già deciso di unirsi all’insurrezione popolare e hanno postato sui social media appelli ai loro colleghi perché facciano altrettanto.

Del resto, fin dai primi giorni della protesta si sarebbe visto uno scollamento simile nelle forze di polizia. Di fronte ad una richiesta del presidente di sparare sui dimostranti, l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia del Sudan (National police officers association of Sudan) aveva diramato un comunicato ai suoi associati in cui diceva che uccidere i dimostranti pacifici è “una flagrante violazione dei dettami del Corano”.

La dichiarazione continuava dicendo che la polizia si era fino a quel momento comportata secondo i fini per cui era nata, cioè proteggere i cittadini, e il suo profilo era ancora onorevole. Perciò, concludeva il comunicato, “lasciate che siano al-Bashir, i suoi fratelli e i grassi gatti (del suo regime) ad affrontare la gente che hanno umiliato, impoverito e disprezzato, invece di chiederlo a voi, i cui salari mensili non sono sufficienti per vivere una settimana”.

Nella giornata di ieri lo scollamento nella polizia si è ricomposto: i comandanti hanno ufficialmente ordinato ai loro uomini di non intervenire contro i dimostranti. Vedremo nelle prossime ora cosa decideranno i vertici delle forze armate. Intanto, la scorsa notte è trascorsa senza assalti ai dimostranti, per la prima volta dall’inizio del sit-in.

È in atto anche una “guerra” alla libertà di informazione. Sono stati saccheggiati gli uffici dell’emittente al-Jazeera e arrestati alcuni corrispondenti della televisione del Qatar, la più seguita e autorevole nella regione. Sono anche stati arrestati diversi giornalisti locali e sequestrate in tipografia le copie di diversi quotidiani. Ma il regime di Khartoum non è riuscito a bloccare internet e i social media così non può nascondere, e neppure minimizzare, quello che sta succedendo nel paese.

Bruna Sironi

Nigrizia

9 aprile 2019

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