Sud Sudan, tra sangue e champagne


Alberto Tundo


La sfida interna portata dai generali ribelli e quella esterna proveniente dal Sudan. Per il nuovo stato, nascere è già difficile.


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Sud Sudan, tra sangue e champagne

I politici di Juba, la capitale, con una mano preparano i bicchieri per il brindisi e con l'altra lustrano i fucili, consci che il destino del loro Paese abbia un nonsoché di beffardo: il Sud Sudan rischia di diventare il primo stato fallito ancor prima di essere nato. Diversi politologi ed esperti di questioni africane la sentenza l'hanno già emessa: l'atto di nascita e il certificato di morte del Sud Sudan rischiano di avere la stessa data, 9 luglio 2011, il giorno in cui l'indipendenza dal Sudan, votata in massa con un referendum il 9 gennaio, diventerà effettiva. La bandiera, l'inno, il nome sono già pronti ma sono le uniche cose che possano far pensare ad uno stato: il resto manca tutto. Mancano soprattutto la stabilità politica e il controllo del territorio. In cinque mesi, gli scontri tra l'embrione di quello che sarà l'esercito sudsudanese e le tante milizie ribelli hanno fatto oltre mille morti e più di centomila sfollati. Le ultime vittime sono cadute tra domenica e lunedì, quando nello stato di Warrap uomini armati hanno attaccato un villaggio per rubare capi di bestiame, uccidendo 34 civili. Sono stati inseguiti da soldati del Sudan People's Liberation Army, il braccio armato del partito-stato del presidente Salva Kiir (Splm) che hanno freddato 48 aggressori.

E' una guerra tra poveri quella che si combatte nel Sud Sudan: si uccide per mucche e capre, per appezzamenti, per l'accesso a fonti d'acqua. Ma soprattutto per potersi sedere al tavolo che conta, dove vengono prese le decisioni. La violenza, come avviene in molti Paesi fortemente sottosviluppati, è il filo che lega risorse e politica. E così, i tanti generali ribelli, fuoriusciti dall'Spla, recentemente si sono dati una struttura politica, formando un Coalition Council, guidato dal generale George Athor, con altri comandanti di primo piano come Peter Gatdet (responsabile della Difesa), Gatluak Gai (capo dello Stato maggiore), Bol Gatkuoth Kol (responsabile Esteri e portavoce). I nomi non dicono molto al grande pubblico ma si tratta di personaggi che si sono trovati fuori dalla spartizione della torta e che dall'indipendenza non hanno guadagnato quel che speravano. Gai, per esempio, ambiva ad un posto di commissario nella contea di Koch; Kol fino a poco fa sedeva in parlamento come rappresentante proprio di quell'Splm contro il quale ora ha imbracciato le armi. Apparteneva invece all'Spla il generale di brigata Karlo Kuom, anche lui con ambizioni di carriera frustrate. I ribelli l'11 aprile hanno presentato anche un documento, la Mayom Declaration, un atto politico che attacca "la corruzione rampante, il tribalismo, l'inettitudine, l'insicurezza che regna nel Paese (e di cui sono corresponsabili, ndr) " del governo di Juba, che pertanto – dice sempre la dichiarazione – va rovesciato.

Tutte accuse fondate, a prescindere dalla credibilità di chi le muove. La conferma si è avuta con la bozza di costituzione, recentemente sottoposta al presidente Kiir, che a breve la firmerà, la quale crea uno stato su misura del partito di maggioranza e della sua appendice armata. Uno dei punti più controversi riguarda la conferma automatica del governo provvisorio in carica, con le elezioni politiche rinviate di quattro anni. L'Splm e l'Spla vogliono mungere la mucca fino in fondo e creare i presupposti per continuare a farlo ad libitum. Anche gli Stati Uniti, notoriamente sostenitori della causa indipendentista, sono preoccupati per la voracità dell'esecutivo sudsudanese e per la palese propensione alla corruzione e all'abuso di potere. Chiedono riforme e una drastica pulizia interna. Ma a preoccuparli di più è l'ombra del Sudan che si allunga minacciosa sul nuovo stato. Da mesi Juba sostiene che le insurrezioni armate siano organizzate e finanziate da Khartoum, che ha ogni interesse a che il Sud precipiti nel caos di una nuova guerra civile interna, per poter riallacciare quella catena che il referendum ha spezzato. Complottismo o no, è un dato di fatto che uno dei leader ribelli di maggior peso, il generale Gatdet, responsabile dei massacri nello stato di Unity, abbia trascorso recentemente molto tempo in Sudan, così come non è una coincidenza che una delle figure più attive nella costruzione di un coordinamento tra i ribelli, il brigadiere James Gaiwach, sia un ex alto ufficiale dell'esercito sudanese.

La posta in palio però non sono solo mucche e capre. Con l'indipendenza di Juba, Khartoum ha perso il suo bene più prezioso, il petrolio. Tra le tante questioni rimaste in sospeso tra i due stati, c'é soprattutto il problema petrolifero, che a sua volta si lega ad un altro nodo insoluto, quello dei confini. La frontiera è tracciata in modo approssimativo, perché restano numerosi buchi. Tre sono quelli più importanti: gli stati del Nilo Blu, del Sud Kordofan e soprattutto di Abiyei, un distretto petrolifero che farebbe parte di quest'ultimo stato ma titolare di uno statuto speciale. Qui, a gennaio si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se aderire al Sudan o al Sud Sudan. Il voto non ha avuto luogo perché Juba e Khartoum non hanno trovato un accordo su chi avrebbe potuto votare: solo i residenti, una popolazione di etnia Kgok inserita nell'orbita del Sud Sudan, o anche i Missereya, pastori nomadi che in passato hanno combattuto a fianco del nord? Si era scelto di non decidere, consci che – come rivelato a PeaceReporter da un alto funzionario sudanese – la guerra tra i due Paese avrebbe potuto facilmente riaccendersi ad Abiyei. Tutto in ordine, quindi? No, la nuova costituzione sudsudanese riconosce il distretto come parte del territorio dello stato. Il presidente sudanese Omar al Bashir ha reagito con un ruggito, sostenendo che Khartoum "non avrebbe ceduto nemmeno un unghia di Abiyei". La frontiera negli ultimi mesi è andata militarizzandosi. Lo hanno rivelato i monitoraggi satellitari del progetto americano Sentinel. Il 9 luglio scadrà ufficialmente quel Comprehensive Peace Agreement che nel 2005 mise fine ad una guerra civile di 23 anni e da oltre due milioni di morti. Khartoum ha già detto di essere contraria ad una proroga del trattato di pace. Come dire che con la secessione muore tutto. Rischiano di morire anche gli accordi di pace e i movimenti alla frontiera lo confermano.

Fonte: PeaceReporter

15 maggio 2011

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