Strage di ragazze a Kabul
Emanuele Giordana
Lutto nazionale per la strage del liceo a Kabul. La scelta dell’obiettivo (giovani donne) e il quartiere (Dasht-e-Barchi, con forte presenza sciita) fanno propendere per una lettura dell’attentato, non ancora rivendicato, di matrice jihadista e non talebana
E’ stato proclamato il lutto nazionale oggi in Afghanistan dopo che sabato pomeriggio l’ennesimo attentato stragista ha ucciso oltre 60 studenti, in maggioranza donne, in un liceo della capitale in un quartiere noto per la presenza di sciiti. I feriti sarebbero invece circa 150 e di molti corpi si cercano ancora i resti.
La scelta dell’obiettivo (giovani donne) e il quartiere (Dasht-e-Barchi, con forte presenza sciita) fanno propendere per una lettura dell’attentato, non ancora rivendicato, di matrice jihadista e non talebana: non dunque la guerriglia che ha firmato l’accordo con gli Usa e che ora sta trattando col governo di Kabul tra alti e bassi.
Questi ultimi per altro, nonostante le accuse del governo, hanno smentito di essere gli autori dell’attentato avvenuto grazie all’esplosione di un’auto bomba e di due ordigni alle porte della Sayed-ul-Shuhada High School, nella parte occidentale della capitale afgana.
Da che i colloqui di pace tra americani e Talebani hanno fissato una data per la partenza delle truppe straniere presenti in Afghanistan dal 2001 – data fissata a maggio e poi rinviata all’11 settembre – il Paese ha conosciuto una recrudescenza di attentati e azioni di guerriglia.
Ma se tutto ciò serve ai Talebani per alzare il prezzo nella trattativa col governo di Kabul – tra rinvii, rimpalli e mezzi accordi – non sembra credibile che proprio alla vigilia della partenza dei kafir stranieri (per il contingente italiano si dice entro il 4 luglio) i Talebani decidano di fare uno scempio di giovani studenti sciiti sapendo bene che molte giovani ragazze frequentano la scuola.
Più credibile che l’Isis miri a tentar di far credere di avere ancora forza sufficiente per far deragliare il processo di pace e che sia in grado di colpire come e dove vuole. Anche la non rivendicazione – così come, altre volte, la rivendicazione di qualsiasi azione – rientra in una strategia pianificata.
Creare il caos anche giocando sul filo delle responsabilità. Sembrerà paradossale, ma l’Isis è in questo momento un nemico sia del governo di Kabul (come di quelli stranieri) sia dei Talebani stessi che hanno sempre avuto verso Daesh un atteggiamento di aperta condanna (essendo anch’esso un esercito di “stranieri”).
Nondimeno la presenza di questi gruppi radicali, che ingrossano le loro fila con combattenti disoccupati espulsi da diversi fronti, rappresenta una sponda per quelle fazioni talebane radicali scontente del processo di pace e che possono essere attratte da un nuovo lavoro ben pagato nelle fila dell’Isis o di qualche altra nuova formazione: elementi che possono sempre trovare qualche buon libro paga in cui essere annotati per danneggiare questo o quel Paese in gruppi che sfruttano tra l’altro le divergenze interne al governo di Kabul e quelle (assai meno evidenti) nei vertici dei Talebani, la fazione guerrigliera nata tra gli “studenti di religione” ai tempi della guerra dei mujahedin contro i sovietici ma affermatasi poi dopo il ritiro dell’Urss del 1989.
L’attentato di ieri sembra dire che se si potrà por fine alla grande guerra in Afghanistan, non sarà facile liberarsi dei cascami prodotti dallo stesso conflitto afgano o da quelli di altre regioni, dalla Libia alla Siria, dalla Cecenia all’Irak.
Emanuela Giordana
Il manifesto
9 maggio 2021