Strage in Sud Sudan: 58 morti in base Onu


Giordano Stabile


Un gruppo armato di giovani Dinka fa strage di civili dell’etnia rivale Nuer. I caschi blu dell’Onu non riescono a fermarli, uccisi anche 10 assalitori. Riesplode la guerra civile.


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Il colpo di coda di una guerra civile mai finita o l’inizio di una nuova fase, ancora più sanguinosa, del conflitto in Sud Sudan. In ogni caso quello che è successo giovedì pomeriggio in un campo profughi a Bor, capoluogo della provincia ribelle dello Jonglei, nel più giovane e tormentato Stato africano, è orrore puro.

«Li ho visti arrivare, armati. Hanno iniziato a sparare in mezzo alla gente che aspettava: donne, bambini, anziani inermi – racconta ancora sconvolto Gabriel Hilaire, project manager della ong Intersos che era nel campo al momento della strage -. Non abbiamo potuto far altro che correre, ma non tutti si sono salvati»

Cinquantotto civili uccisi, oltre cento feriti, molti gravissimi, sotto gli occhi dei caschi blu che non sono riusciti a fermare gli assalitori: un gruppo di giovani Dinka si è presentato davanti al campo come manifestanti pacifici, con tanto di cartelli, ma poi hanno estratto i fucili mitragliatori e lanciarazzi e sparato all’impazzata sulla gente inerme.

Il campo profughi di Bor ospita circa 5mila persone, in fuga dalla guerra civile che sta dilaniando il Paese dall’inizio dell’anno. La maggior parte sono di etnia Nuer, maggioritaria nella zona, nemica di Dinka che di fatto detengono tutto il potere attraverso il presidente Salva Kiir Mayardit. Proprio la defenestrazione dei rappresentati dei Nuer, il vicepresidente Riek Machar, aveva portato allo scontro aperto fra le due etnie, che dura oramai da quasi cinque mesi, nonostante la presenta di 13mila caschi blu della missione Unmiss.

La folla di giovani Dinka si è avvicinata ieri al campo per protestare contro il licenziamento da parte dell’Unmiss di alcuni di loro e della scarsa reazione alla nuova offensiva dei Nuer di Machar, che nei giorni scorsi hanno riconquistato il capoluogo della vicini provincia di Unity, Bentiu. Ma appena sono riusciti a farsi aprire le porte del campo hanno aperto il fuoco, nonostante i colpi di avvertimento dei caschi blu. Sono stati uccisi almeno 48 rifugiati, mentre dieci assalitori sono stati abbattuti fuori dal campo.

Il ritorno delle ostilità e i massacri etnici di civili sono esattamente lo scenario peggiore che teme l’Onu. «Bisogna assolutamente fermare questo ciclo di violenze e vendette che non porta il Sud Sudan da nessuna parte – dice parlando dalla capitale Juba, Toby Lanzer, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite nel Paese -. Getta un’ombra oscura sul futuro, che invece potrebbe essere brillante. Sono, siamo tutti, molto amareggiati».

Il Sud Sudan, a maggioranza cristiana, ha raggiunto l’indipendenza solo nel 2011, dopo mezzo secolo di lotta con il Sudan del Nord, arabofono e musulmano. Ma adesso le divisioni etniche, messe da parte durante il conflitto con il nemico comune, stanno esplodendo. «Il fatto che sia stato attaccato un campo protetto dalle forze dell’Onu – riflette il portavoce dell’Onu Stephane Dujarric – è un’escalation molto preoccupante»:

Di fatto il Sud Sudan, che ha un potenziale per produrre 500mila di barili di petrolio al giorno e quindi potrebbe essere uno Stato fra i più ricchi dell’Africa, è amministrato dall’Onu e dalle ong a essa collegate. Sanità e istruzione sono quasi inesistenti e più di metà del bilancio statale è speso per le forze armate. Ma ora molte unità sono passate con il vicepresidente ribelle e quello che doveva diventare un elemento di stabilizzazione, un esercito federale, è diventato il combustibile per una guerra civile sempre più violenta.

Fonte: www.lastampa.it

18 aprile 2014

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