Somali, “c’è chi si brucia le dita per cancellare le impronte”


Redattore Sociale


Rispediti indietro dai paesi del nord Europa perché sono stati identificati in Italia. Le storie dei rifugiati dell’ex ambasciata a Porta Pia raccolte dai Medici per i diritti umani. Nuovo appello per un diverso alloggio.


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Somali, "c’è chi si brucia le dita per cancellare le impronte"

Rifugiati in fuga dall’Italia per le condizioni misere in cui sono costretti a vivere e rispediti indietro da Finlandia, Svezia, Olanda e Svizzera a causa degli accordi di Dublino che prevedono la loro permanenza nel paese in cui hanno fatto domanda d’asilo. Sono le storie dei 140 somali stipati nell’ex ambasciata di via dei Villini raccolte dall’organizzazione umanitaria “Medici per i diritti umani”, presente una volta alla settimana con una sua unità mobile davanti al dormitorio lager di Porta Pia. I somali che sono titolari di protezione internazionale, riconosciuta dall’Italia perché provengono da un paese in guerra, non riescono a sopravvivere nel nostro paese. Ma non possono trasferirsi altrove perché il riscontro delle impronte digitali li obbliga a ritornare. “C’è un mio amico che si è bruciato le mani, 4 mesi fa, per cancellare le sue impronte così è riuscito ad andarsene e ad ottenere i documenti in un altro paese – racconta I. –  Ora è in Svezia. Un altro, per fare questo ha perso le dita delle mani che sono andate in cancrena . Ora è in Inghilterra, ha i documenti, ma non ha più le mani”.  Tutti avevano casa e lavoro in Somalia, ma sono scappati per non morire in guerra. Ora però dicono: “loro muoiono una sola volta se li uccide un ladro o un sicario, hanno paura della morte una volta sola. Io invece sono sempre morto, anzi ora non sono né morto né vivo, sono a metà”.

Sono due le storie esemplari raccolte dai Medu che hanno fornito solo le iniziali dei somali che ne sono protagonisti. A. era un giornalista televisivo a Mogadiscio, minacciato di morte per il suo lavoro. Molti suoi colleghi sono stati uccisi. I suoi genitori hanno venduto la casa in cui vivevano per pagargli il viaggio. È partito a novembre del 2007. Etiopia, Sudan, Libia, attraversando 3000 chilometri nel deserto. I libici lo hanno arrestato e trattenuto in carcere per sette mesi. “Il carcere in Libia è duro, durissimo – racconta A. – Non hai un letto, si dorme sul pavimento, si mangia una volta al giorno e spesso picchiano con i manganelli. Sono riuscito ad uscire dal carcere solo pagando mille dollari al comandante dei soldati. Sono venuto in barca con altre 140 persone. Una sola barca, tre giorni e tre notti nel Mediterraneo. Poi la barca ha iniziato a spaccarsi, allora ci siamo spogliati e abbiamo cercato di tappare le crepe con i nostri vestiti”.  Infine l’arrivo a Pozzallo e il trattenimento nel centro per richiedenti asilo, prima di ottenere il riconoscimento della protezione internazionale. I. è arrivato a Lampedusa a febbraio del 2008 e ha visto morire molta gente nel deserto e anche nel suo doppio tentativo di attraversare il Mediterraneo dalla Libia. Racconta: “All’uscita del Cara di Crotone avevo l’indirizzo di dove avrei trovato alloggio a Roma: Via dei Villini numero 9”. Ma si è trovato davanti la vecchia ambasciata infestata dai topi. Così ha tentato varie strade. Prima il lavoro in un circo di Catanzaro, poi con l’arrivo della moglie in Italia, sono andati insieme a cercare fortuna a Zurigo.

“Ero con la mia famiglia – dice –  mi davano un po’ di soldi, andavo sempre a scuola così speravo di trovare un lavoro, i documenti, un buon futuro e di poter vivere bene, ma poi hanno scoperto che avevamo le impronte in Italia e dicevano che non potevamo restare lì. Mia moglie in quel momento era incinta. Il mio figlio piccolo è nato lì in Svizzera”. Dopo infinite altre traversie sua moglie ha accusato problemi psichiatrici e  ora si trova in un centro delle suore con suo figlio. Lui sta nell’ex ambasciata.
 
“Oltre l’anamnesi medica – scrivono i Medici per i diritti umani –  storie di vita indispensabili per comprendere il disagio e la sofferenza di persone che, private di ogni prospettiva di integrazione, combattono quotidianamente per conservare la propria dignità. Testimonianze utili forse a far si che questa vicenda non torni ad essere una storia dimenticata di esclusione”. L’organizzazione umanitaria rinnova così il suo appello alle istituzioni (Comune, Provincia, Regione, Ministero dell’Interno) affinché si individuino con urgenza soluzioni di accoglienza dignitose e percorsi di integrazione per i numerosi rifugiati somali costretti a vivere in condizioni disumane presso l’ex-ambasciata somala di Via dei Villini.

Fonte: Redattore Sociale

19 gennaio 2011

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