Soldi e ownership, l’altro fronte della guerra afgana
Emanuele Giordana
Indagine su come gli afgani spendono i soldi americani: il responso degli esperti è negativo. A loro avviso i ministeri sono incapaci di gestire e di rendicontare le spese.
Lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar) ha affidato a Ernst & Young e Kpmg un’indagine su come gli afgani spendono i soldi americani. Gli esperti hanno lavorato dal gennaio 2011 all’agosto 2013 spulciando 16 ministeri afgani. Ma il responso degli esperti è negativo. A loro avviso i ministeri sono incapaci di gestire e di rendicontare le spese nonostante le raccomandazioni (696!) che E&Y e Kpmg hanno fatto nei loro report finanziari dedicati. Quasi la metà delle raccomandazioni si esprimeva con i termini di “critico” o ad “alto rischio”, in particolare per 7 delle 16 entità.
I soldi che gli americani hanno riversato in Afghanistan sono tanti: qualcosa come 96,57 miliardi di dollari tra il 2002 e la metà del 2013 anche se la parte del leone l’hanno fatta il dipartimento della Difesa e il dipartimento di Stato mentre solo il 13% (circa 13,3 miliardi di dollari) sono andati alla United States Agency for International Development (Usaid) per la ricostruzione, attraverso un fondo (Economic Support Fund o Esf) che viene finanziato su indicazione del Congresso e che attualmente, dal 2002, è arrivato a un bilancio (diremmo “allocato”) di 16.65 miliardi. Per quanto riguarda i ministeri afgani però la torta è ancora più piccola: l’aiuto “diretto” dal 2004 a metà 2013, è stato pari a 1,8 miliardi di dollari, per 18 progetti divisi tra 10 ministeri e altre entità governative afgane. Ma attenzione, su una stima di 1,677 miliardi solo 688 milioni sono stati effettivamente impegnati e soltanto 226,9 milioni sono effettivamente arrivati a destinazione. Ciò si deve alla decisione presa a Londra nel 2010 di destinare in forma diretta al governo afgano i fondi per la ricostruzione almeno per il 50% del totale, cosa da cui sembra si sia abbastanza lontani. Ma da questo ad aprire la borsa comunque ce ne passa, al netto dei (pur comprensibili) controlli. A conti fatti, si potrebbe dire che il rapporto di fiducia con gli afgani è quasi pari a zero o cresce molto a rilento e con una certa distanza dalle raccomandazioni di Londra prima e Tokio poi. Ciò si deve certamente anche ai “buchi” neri nella forma in cui è gestita la cosa pubblica, alla corruzione, a una competenza ancora non completa. Ma anche alla decisione di privilegiare altri attori.
I 13 miliardi di Usaid, ad esempio, sono andati per il 13% alla World Bank (1,746 milioni), che assieme ad altri 5 colossi si è aggiudicata appalti per circa la metà del totale. Le Nazioni Unite (Unops e Undp) arrivano rispettivamente al settimo e ottavo posto. I colossi chi sono? C’è l’International Relief and Development, Inc. (Ird), organizzazione non profit americana, la Louis Berger Group, società di engineering del New jersey, Development Alternatives, Inc. (Dai), compagnia privata di sviluppo del Maryland, Chemonics International, Inc., compagnia privata come la precedente con sede a Washington. La ownership può attendere.
I due report di Sigar (il primo sui fondi diretti, il secondo sui fondi di Usaid) sono disponibili su Internet e aiutano a farsi un’idea dei costi e delle scelte della guerra (e della ricostruzione) afgana. Ma dicono qualcosa di più in un momento molto delicato. Dicono che gli afgani – come riporta un po’ acriticamente anche la stampa locale – non sono capaci di gestire o sono poco trasparenti nella gestione dei quattrini che vengono dall’estero. E’ un elemento di pressione in più che spinge nella direzione di accettare la firma del Bsa, l’accordo strategico sulla sicurezza che in questi mesi ha visto una vera e propria guerra fredda tra Washington e Kabul, o meglio con Karzai, che si ostina a non firmare. Il perché lo ha spiegato oggi alla Bbc. Qualche volta viene da pensare che tutti i torti proprio non li ha.
Fonte: http://emgiordana.blogspot.it
6 febbraio 2014