Si è capito che era finita quando la Tv ha messo in sovraimpressione un banner: “l’Egitto sta cambiando”


Riccardo Chartroux


“Mentre la festa non accenna a finire, e la strada della democrazia è stata appena imboccata, c’è una storia nella storia della rivoluzione egiziana. Quella della battaglia per l’informazione”.


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Si è capito che era finita quando la Tv ha messo in sovraimpressione un banner: “l’Egitto sta cambiando”

Mentre la festa non accenna a finire, e la strada della democrazia è stata appena imboccata, c’è una storia nella storia della rivoluzione egiziana. Quella della battaglia per l’informazione. Ricorderete Shahira Amin, la conduttrice del canale satellitare in inglese che si era dimessa per protesta contro la censura. E’ stata solo la prima. Il giorno dopo si è dimessa Soha el Nakash, conduttrice del telegiornale in arabo, anche lei denunciando che mentre migliaia di persone scendevano in piazza contro Mubarak la televisione di Stato parlava dei giardini della first lady. Nei primi giorni della crisi, i programmi della Tv si dilungavano sulle rivendicazioni economiche dei manifestanti, senza mai dire che volevano le dimissioni di Mubarak.

Dicevano che erano pagati, che ricevevano pasti gratis dai fast food, li accusavano di essere al servizio di agenti stranieri, di un complotto ordito insieme da Hamas, da Hezbollah e dagli Stati Uniti (mancavano Pippo e Topolino). Said, un collega che lavorava per l’agenzia di Stato Mena, mi racconta dei suoi lanci da piazza Tahrir, parlava di migliaia di manifestanti che in rete diventavano decine, scriveva che la polizia sparava e il suo capo correggeva: i dimostranti sparano. Ma poi il muro della censura ha cominciato a incrinarsi. Il primo canale ha ospitato un musicista, Ammar El Sherei, che ha discusso con la conduttrice. “Si vergogni!” le ha detto. “La gente ha occhi, dove sono le migliaia di manifestanti pro-Mubarak di cui parla?”

Il 30 gennaio Reem Nour, una inviata di 22 anni della tv, è andata dal suo capo e gli ha gridato: la gente ride di noi, d’ora in poi non accetto censure. Va bene le ha risposto lui, vai e porta le notizie. Per la prima volta la collega ha potuto parlare ai telespettatori delle richieste dei manifestanti. “In redazione avevano capito” racconta Reem, “che il vento stava cambiando”. Al giornale governativo Al Ahram i giornalisti hanno votato un documento di protesta e il direttore Omar Saraya, fiero difensore del regime, ha scritto un editoriale in cui lodava la nobiltà della rivoluzione e chiedeva riforme. Molti giornalisti hanno protestato contro il presidente del loro sindacato Ahmed Makram Mohammed che si è dimesso il giorno in cui Mubarak vacillava.

Si è capito che era finita quando la Tv ha messo in sovraimpressione un banner: “l’Egitto sta cambiando”… I giornalisti del servizio pubblico sono bravi a fiutare il vento (intendo in Egitto, naturalmente). Tra le richieste presentate ora dal comitato rivoluzionario ai militari c’è quella di assicurare la completa libertà di stampa, nella classifica mondiale di Reporters senza Frontiere l’Egitto è al trentacinquesimo posto. Ma a riempire i silenzi della stampa ufficiale in questi anni sono stati i blogger. Kareem Amer, arrestato più volte e rilasciato solo il giorno della fine del regime, Wael Ghonim, il manager di Google diventato il simbolo della rivoluzione con la sua pagina Facebook “siamo tutti Khaled Said”, dedicata a un ragazzo ucciso da poliziotti corrotti perché aveva messo su internet un filmato in cui prendevano soldi dagli spacciatori.

E poi gli altri, Zeinobia, El Shaheed, Baheyya, Sandmonkey, tutti nomi familiari ai giovani egiziani come Ana Ikhwan, il primo blogger dei Fratelli Musulmani, e il movimento 6 Aprile su Internet e soprattutto su Facebook. Sono stati loro a imporre alla attenzione del pubblico fatti di cui i media ufficiali non parlavano mai, come le aggressioni a giovani donne durante la festa dell’Eid di tre anni fa, negata da polizia e giornali come leggenda metropolitana e svelata dai blog finché anche la televisione ne ha dovuto parlare. O le violenze contro gli omosessuali da parte dei poliziotti. Nei primi giorni della rivolta il regime ha chiuso Internet ma ha dovuto rinunciare, non serviva a niente perché i giovani avevano trovato il modo di collegarsi lo stesso ma soprattutto stavano andando in bancarotta migliaia di call center, in pieno boom in Egitto: lavorano tutti con il VoIP, le chiamate in rete.

Non ci sono solo le piramidi… La rivoluzione egiziana ci ha rivelato un ceto medio arabo vitale, attento, assetato di informazioni, e una categoria di giornalisti che era, certo, asservita al regime ma dentro il quale crescevano energie sane, voglia di raccontare la verità contro le censure. Se l’Occidente vuole davvero incoraggiare le forze della democrazia e della libertà al di là del Mediterraneo, la battaglia dell’informazione è cruciale. Sosteniamo i giornalisti che vogliono raccontare il cambiamento del loro Paese. Sosteniamo i tanti giovani che sono diventati, sfidando la censura, gli occhi e la voce del movimento per la democrazia. Perché Articolo 21 non comincia con l’ospitare link a siti e blog (egiziani per cominciare ma stanno risvegliandosi l’Algeria, la Libia, la Giordania, ci sono blogger in tutti i Paesi arabi)? Perché non trovare il modo per offrire solidarietà ai giornalisti veri, e sono tanti quelli che vogliono farla finita con censure e verità di regime?

Quando ero in piazza per girare immagini della rivoluzione la gente mi fermava e mi ringraziava, gli egiziani vogliono che il mondo sappia, veda, parli con loro. Internet è il ponte tra le due sponde del Mediterraneo, troviamo modi per usarlo, e per adesso chi va su Twitter può usare #Feb12 per la rivolta in Algeria. E #Feb17 per la rivoluzione promessa in Libia e intitolata ad Omar Mukhtar l’eroe della resistenza contro l’Italia (a proposito, il nostro amico Gheddafi ha vietato ogni ripresa televisiva nel Paese per il 17, giorno delle manifestazioni, significa un massacro senza testimoni). E c’è #Feb11 per lo Yemen, ma soprattutto #Feb14 oppure #25Bahman per l’Iran che ci riprova… C’è un mondo in movimento, non stiamo alla finestra.

Fonte: www.articolo21.org

13 febbraio 2011

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