Se tace la politica


Luigi Bonanate


Lo scenario internazionale è sempre più costellato da guerre, vecchi e nuovi motivi di conflitto tornano alla ribalta mentre le potenze ormai storiche decadono. "Non sarebbe il momento di dare spazio alla politica,facendosi aiutare da quella dimensione che vive nel rifiuto della violenza, e si chiama democrazia?"


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Se tace la politica

Quale sia oggi il problema che attanaglia il mondo è presto detto: sta ritornando l’era delle guerre,che credevano superate e al massimo avvicendata da estemporanee operazioni anti-terroristiche improvvisamente il fuoco si è riacceso:nel clima olimpico che doveva celebrare il trionfale ingresso della Cina nel club delle grandi potenze, abbiamo scoperto che “il re è nudo”, cioè di grandi potenze non ce n’è più, e quelle che cercano di diventarlo si ingeriscono in questioni da cui non possono trarre alcun vantaggio. Ma la politica internazionale ha ancora bisogno di grandi potenze? Se guardiamo ai fatti della Georgia in questa vecchia e tradizionale logica non capiremo perché la Russia possa invischiarsi in una banale vertenza di irredentismo che non appare all’altezza di un grande disegno politico. A loro volta,gli Stati Uniti si ritrovano nuovamente a difendere –tra le due parti in conflitto –quella più indifendibile,una Repubblica senza storia,senza identità(nel che non c’è nulla di male, se solo tutti lo accettassero), che rincorre gli aiuti (anche militari) occidentali con un mero spirito di rivincita post-comunista. Tanto Putin quanto Bush si sono scordati,intanto della Cecenia, che un’identità storica pur l’aveva.
Ma perché la Georgia e perché ora? Il primo e più significativo elemento è che il cuore delle tensioni internazionali si va a collocare definitivamente nella cerniera caucasica che separa Est e  Ovest e collega Nord e Sud(lungo l’asse del 40° meridiano),partendo dalla Turchia e incontrando, accanto alla Georgia appunto,altre Repubbliche ex-sovietiche come il Turkmenistan e l’Uzbekistan; ma anche l’Iran e Iraq, Afganistan e Pakistan:un pugno di paesi,la cui corona si chiama Libano,Israele, Ukraina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, per non dire Cina . L’Asia centrale,che dopo la fine del bipolarismo doveva inquadrarsi nella politica internazionale, è diventata il luogo sia fisico sia simbolica nel quale sta iniziando la nuova grande partita della politica internazionale.
Tutt’altro che stranamente,i tavoli sui quali il gioco si sta svolgendo si occupano di petrolio(ma sarebbe meglio dire:fonti energetiche,o come si diceva una volta:materie prime – e ci capiremo anche meglio) e nazionalismi,cioè di confini, separazioni, indipendenze. Verrebbe da dire che di fronte a immensi problemi come questi, tutt’altro che nuovi (si potrebbe dire che il primo causò la prima guerra mondiale, e il secondo la seconda), i grandi stati dovrebbero saggiamente e fin d’ora disegnare una politica fondata su un progetto di ordine internazionale,se no consensuale almeno solido e rigoroso. E invece l’Occidente commisera grettamente il suo declino, il de-industrialismo,quando potrebbe impegnarsi nello sviluppo dei paesi più arretrati,nell’aiuto ai poveri, nella loro democratizzazione, e invece li usa come basi militari e punti di osservazione.
L’unilateralismo statunitense (con un Presidente scadente e in scadenza) e l’attivismo russo (con un Presidente che diventa Primo ministro in attesa di rifare il Presidente) appaiono oggi l’espressione di una totale incapacità di progettazione politica. Se i fondamenti della politica estera americana erano il contenimento dell’islamismo,il controllo del petrolio e l’avanzamento dello scudo spaziale,ebbene il bilancio si rivela del tutto fallimentare: l’Islam non è arretrato, anzi avanza non per quella via militare e violenta che Bush immaginava ma sull’onda del messaggio revanscistico che galvanizza popoli secorlarmente oppressi dall’Occidente. Il petrolio sembra evaporare di minuto in minuto ma per intanto consente enormi profitti alle grandi centrali petrolifere, le cui riserve si rivalutano minuto per minuto (posizionate, guarda caso,negli Stati Uniti). La politica strategica infine, una volta esauritasi la spinta provocatoria delle guerre stellari di Reagan – il gradino finale su cui Gorbaciov inciampò e cadde – è diventata monopolio di un militarismo antiquato che trascura gli alleati di sempre, gli europei dell’UE, e sogna di accerchiare il nemico.
Già, ma quale nemico? Ci avevano detto trattarsi dell’Iran. Ma poiché il terrorismo nucleare non si ferma con lo scudo spaziale (ovviamente), non rimane che un’ipotesi, quella di una Russia rampante e aggressiva che, una volta liquidate le macerie del comunismo, risorge e si rilancia nel sogno zarista della Grande Russia. Ma se il progetto americano non brilla, quello russo appare ridicolmente velleitario. Salvo a chi piace un regime come quello russo, corrotto, inefficiente, arrogante come il suo Primo ministro, che s’aggrappa alla Georgia (che poi è vicina alla Cecenia) perché gli offrirebbe il controllo dello snodo caucasico (anche di lì dovrebbero passare gli oleodotti), l’attuale politica russa appare così ingiustificata da lasciar di stucco. Basta pensare che se l’Occidente avesse già accolto la richiesta georgiana di entrare nella NATO, oggi saremmo in guerra con la Russia,sulla base della famosa clausola dell’art.5…
Siamo sull’orlo del paradosso:gli Usa spostano l’obiettivo collocando in Polonia missili che guardano strabicamente la Russia,mentre dovrebbero guardare verso l’Iran; Putin se la prende con la Polonia e il Presidente polacco Kczynski non si fa attendere per evocare i fantasmi di un lugubre passato. Potremmo ridimensionare il problema pensando sia comprensibile che la Russia umiliata voglia ritornare all’onor del mondo riprendendosi almeno i confini di un tempo:ma qui scoppia quell’ altra bolla, l’autodeterminazione dei popoli,che l’Occidente ha sempre accarezzato e raramente pratico. E del resto:quanto ci tengono a loro volta i kazakhi, che poggiano i piedi su uno dei più ricchi territori della terra,e non hanno mai combattuto per la loro indipendenza nazionale?
Quando la situazione internazionale ci sfugge di mano non è per cause naturali, ma politiche. Se non si fa politica, ma si rimane invischiati in una logica di potenza sperando soltanto di arraffare qualche cosa qui e qualche cosa là, le prospettive non possono essere rosee. Non sarebbe il momento di dare spazio alla politica,facendosi aiutare da quella dimensione che vive nel rifiuto della violenza,e si chiama democrazia?

Fonte: L'Unità

18/08/2008

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