Se Gaza scoppia


Janiki Cingoli


"Va detto a chiare note -afferma Janiki Cingola nell’editoriale edito su www.cipmo.org- che la continua pioggia di razzi che piove sulle città di confine israeliane è grave e inaccettabile per chiunque… In prospettiva, riprende attualità anche la creazione di una forza internazionale di interposizione, a partire da Gaza".


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Se Gaza scoppia

Duecentomila abitanti di Gaza, su un totale di un milione e mezzo, si sono riversati in Egitto, attraverso gli ampi squarci aperti nella barriera di confine dai miliziani di Hamas, per acquistare viveri e rifornimenti. Il presidente Mubarak ha dichiarato che è stato loro concesso di entrare, in considerazione della condizione di estrema penuria cui il prolungato blocco israeliano li aveva ridotti.
Non si può affermare che la strategia adottata dal governo di Gerusalemme per reagire alla continua pioggia di razzi Kassam su Sderot sia risultata molto felice. Essa ha coniugato l’estensione degli attacchi e degli assassini mirati contro i leader militari di Hamas e delle altre organizzazioni islamiche alla progressiva escalation nel taglio del carburante e delle altre forniture energetiche, e al blocco degli accessi alle frontiere, con la sola eccezione per gli episodici rifornimenti per i generi di prima necessità.
Questa scelta ha provocato i ripetuti interventi della Unione Europea e degli stessi Stati Uniti, che hanno chiesto che si evitasse di provocare una grave crisi umanitaria. Ma essa è risultata ancora più insostenibile per le diverse leadership arabe, sottoposte alla crescente pressione delle loro opinioni pubbliche, e al martellamento delle diverse emittenti arabe.
Va detto a chiare note che la continua pioggia di razzi che piove sulle città di confine israeliane è grave e inaccettabile per chiunque. E’ evidente che la stessa leadership israeliana non riesce a reggere questa situazione, mentre deve prendere decisioni molto difficili sul piano negoziale, e deve fronteggiare la possibilità di una crisi di governo, dopo l’uscita di Liberman e le minacce del partito religioso Shas. La scelta del pugno forte a Gaza può consentire a quella leadership di fronteggiare la pressione crescente cui è sottoposta, cercando di evitare o almeno di rinviare una nuova invasione della Striscia, che pure è proposta da diversi settori politici e militari.
Ma si tratta di una scelta a breve termine, senza prospettiva. Non si può pensare di portare avanti il negoziato, a prescindere dal concreto sviluppo della situazione sul terreno, e dalle ripercussioni che essa ha sulla opinione pubblica e sulle stesse leadership.
Questa considerazione riguarda anche la situazione in Cisgiordania. Il negoziato non può procedere, in concreto, se non si realizza un miglioramento della vita quotidiana della popolazione, oggi soffocata dalle centinaia di blocchi stradali, e mentre i cosiddetti avamposti illegali non solo non sono rimossi, ma anzi continuano a crescere e a ramificarsi. Così come è evidente che, in parallelo i palestinesi devono farsi carico dei problemi di sicurezza israeliani, imponendo la legge e l’ordine nelle città (come hanno già cominciato a fare a Nablus e in alcune altre città), disarmando le milizie e smantellando progressivamente le fabbriche di armi.
Peggio di tutti sta il Presidente Abu Mazen, che deve sempre più tormentosamente giustificarsi davanti ai suoi cittadini, che vedono i negoziatori della ANP abbracciare e stringere la mano agli esponenti di quel governo che assedia Gaza. Tutto ciò non fa che indebolirlo e screditarlo, rendendolo agli occhi della sua gente sempre più simile a quel Generale Lahad, che controllava la parte meridionale del Libano per conto degli israeliani, quando ancora durava la loro occupazione.
Questo rafforza Hamas, che pure affronta crescenti difficoltà per la morsa israeliana. L’organizzazione islamica sta ora tentando, anche con l’apertura dello squarcio sul confine egiziano di questi giorni, di drammatizzare ulteriormente la situazione, e di arrivare in prospettiva ad un controllo palestinese e egiziano sul valico di Rafah, che gli consenta di spezzare l’assedio israeliano, anche se questo può significare affidare il controllo agli uomini del rivale Abu Mazen.
Per quanto riguarda il problema dei razzi Kassam, Abu Mazen continua a condannarli decisamente, ma non è in grado, da solo, di bloccarli, senza raggiungere un nuovo accordo con Hamas, che ricrei una nuova unità interpalestinese, e che coinvolga anche indirettamente Israele, stabilendo una tregua di lungo periodo nelle rispettive attività militari, insieme ad un largo scambio di prigionieri.
Oggi, Israele tratta con Hamas, attraverso l’Egitto, per arrivare alla tregua e allo scambio dei prigionieri, creando allarme in Abu Mazen che teme di essere escluso; Abu Mazen sa che dovrà riaprire i contatti con Hamas per giungere a un nuovo accordo, anche per la crescente pressione dei maggiori paesi arabi, ma teme che ciò provochi la reazione israeliana e la fine delle trattative rilanciate dopo Annapolis; e Hamas tratta con tutti, ma vuole conservare la sua “purezza” e non vuole tornare ad essere considerato un pariah da tenere fuori della porta. Questa spirale di veti incrociati e di incomunicabilità a senso alternato va spezzata, se si vuole davvero uscire dalla crisi.
In prospettiva, riprende attualità anche la creazione di una forza internazionale di interposizione, a partire da Gaza (analoga a quella operante in Libano, a guida italiana). Ma è impossibile attuarla attraverso una imposizione internazionale, è indispensabile- un accordo di tutte le parti, sia dei palestinesi (Fatah e Hamas) che degli israeliani, e probabilmente anche degli egiziani. Senza necessariamente attendere l’accordo finale di pace: essa potrebbe essere attuata anche come misura intermedia e di garanzia per costruire la fiducia.

Fonte: Cipmo

24 gennaio 2008

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