Sabotare la democrazia: perché la Tunisia resta al centro dell’offensiva jihadista


Giampaolo Cadalanu


Il doppio attacco di Tunisi dimostra che il Paese è ancora molto esposto: per la fragilità della sua economia e l’esperimento democratico che rappresenta. Ma dicono anche che i meccanismi di sicurezza sono in realtà di buon livello


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No, non è il “solito” attentato che potrebbe far parte di una drammatica routine, in un Paese che solo un giudizio superficiale può considerare irrimediabilmente instabile, come altri della regione. Il doppio attacco di Tunisi è un segnale importante, che dimostra diverse realtà. È utile esaminarle una ad una.

1) Il gruppo terroristico che ha fondato il Califfato è ancora vivo: abbandonato il radicamento territoriale dopo la sconfitta in Iraq e Siria, è tornato a essere un’organizzazione che progetta attentati, tuttora pericolosa ai massimi livelli. È presto per capire se sia l’Isis o piuttosto qualche emulatore ad aver organizzato gli attacchi di Tunisi. Ma in attesa di ricostruire l’identità degli attentatori, sembra poco probabile che a colpire nella capitale possa essere stato un gruppo integralista slegato da un inquadramento internazionale. I jihadisti locali della zona del Kef hanno poco interesse a suscitare la repressione, preferiscono mantenere la loro roccaforte e scendere per le loro scorribande nella zona di Kasserine. A Tunisi godono di meno supporto e tutto sommato non hanno obiettivi strategici. Gli specialisti ritengono che tutt’al più i gruppi tunisini possano aver fornito alloggio e supporto logistico a militanti venuti da fuori.

2) La Tunisia resta al centro dell’offensiva jihadista, per la maggiore fragilità della sua economia. Non è un caso che gli attacchi arrivino all’inizio dell’estate. Il progetto è ovviamente quello di minare l’industria turistica, diffondendo la paura e cercando di imporre un’idea di instabilità. Questo avrà effetto, in modo inevitabile, sulla disponibilità di risorse del Paese e di conseguenza sul disagio della popolazione. E i signori del terrore lo sanno bene: i giovani a pancia vuota sono più facili da reclutare.

3) Anche il meccanismo democratico e la sua inevitabile delicatezza rendono la Tunisia un obiettivo più facile e più ambito per i jihadisti. In questa occasione ad aggravare la crisi si aggiungono le condizioni di salute del presidente Beji Caïd Essebsi. Le voci sulla sua morte si rincorrono, e questo aggiunge un elemento di instabilità probabilmente non previsto nemmeno da chi ha pianificato gli attentati.

4) I meccanismi di sicurezza della Tunisia sono in realtà di buon livello, perfezionati da accordi bilaterali con i Paesi del G-7. Gli analisti sono concordi: la situazione è molto diversa rispetto al 2015. Ne è una prova il fatto che obiettivo degli attentatori siano gli agenti di polizia, sempre esposti per motivi di servizio. I luoghi del turismo, gli aeroporti, gli alberghi, sono protetti molto più che in passato. Lo stesso vale per le frontiere: il confine con la Libia, che in passato era considerato permeabile, adesso è controllato in modo più capillare, in attesa che gli accordi con l’Europa garantiscano l’arrivo di sistemi elettronici che rendono più difficile il movimento dei fondamentalisti. In più, a Repubblica risulta che l’apparato di sicurezza abbia avuto notizia di un terzo attentato, che sarebbe stato sventato dalla reazione immediata e avrebbe fatto partire una diffusa caccia all’uomo. Anche questa è una prova che i sistemi di difesa funzionano al meglio. La sicurezza al cento per cento? Basta pensare agli ultimi attentati in Europa, ricordano gli esperti, per capire che non esiste da nessuna parte del mondo.

DI GIAMPAOLO CADALANU

27 giugno 2019

 

 

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