Ritratto di una generazione in crisi


Cinzia Gubbini


Studiano ma restano a casa con mamma e papà. Sei universitari su dieci, in media, lavorano per mantenersi gli studi. Le famiglie italiane considerano la laurea ancora un fattore di mobilità sociale, ma siamo fanalino di coda in Europa, dove l’86% dei laureati sotto i 30 anni è occupato. Da noi solo il 60% e con un futuro pensionistico che fa paura. Due indagini fotografano un futuro già ipotecato.


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Ritratto di una generazione in crisi

Su quattro studenti universitari italiani, tre vivono ancora a casa di mamma e papà. Quattro su dieci lavorano, il dato sale a sei nelle famiglie economicamente deboli. D'altronde solo quattro su dieci accedono a qualche aiuto economico per affrontare gli studi. Sono questi alcuni dati che emergono dall'indagine Eurostudent della fondazione Rui, realizzata in collaborazione con il ministero dell'Università e della Ricerca. Ma proprio stamattina è stato presentato anche un altro Rapporto sulla condizione giovanile, quello sullo Stato sociale 2011 "Questione giovanile, crisi e welfare State", curato da Roberto Pizzuti .

E' interessante intrecciare i due dati, anche perché l'Eurostudent – una rilevazione che viene realizzata ogni tre anni nell'ambito di un progetto internazionale di analisi comparata della condizione studentesca in vari paesi europei, ("Eurostudent Report Project") – si riferisce agli anni 2008-2009. Mentre il Rapporto di Pizzuti fa perlopiù riferimento ai dati del 2010. Uno guarda, insomma, a un periodo pre-crisi. L'altro a un periodo post (ammesso sia passata) crisi. Emerge il profilo di un paese con carenze strutturali fortissime. E se l'Italia ha saputo affrontare in modo più "performante" la crisi finanziaria, grazie principalmente al risparmio delle famiglie italiane, il quadro che emerge pone invece un problema stringente sul futuro: una vera e propria "questione giovanile".

La ricerca Eurostudent sottolinea come per le famiglie italiane la laurea rappresenti ancora un potente fattore di mobilità sociale, almeno nel medio-lungo periodo. E per questo si caricano di sacrifici piuttosto seri per assicurare ai figli la agognata "laurea". Ma quattro studenti su 10 lavorano mentre studiano, il dato cresce a 6 su dieci se la famiglia è economicamente debole. Il lavoro li occupa per circa 15-20 ore alla settimana. Mentre allo studio dedicano 41 ore alla settimana in media (il che, tra l'altro, ci racconta ancora una volta dei nuovi corsi di studio all'"acqua di rose"). Un carico di lavoro, comunque, che non verrebbe firmato da nessun sindacato, neanche nelle contrattazioni "aziendali" caldeggiate da Confindustria. Ovviamente, molti studenti scelgono di tuffarsi nel mondo del lavoro anzitempo anche per avvicinarsi quanto prima alla futura professione, e quando possono cercano di inserirsi nel futuro campo di lavoro. Ma è indicativo che, secondo l'indagine, ben 6 studenti su dieci rimangono fuori da qualsiasi aiuto economico per affrontare gli studi, e nel 2009 la media del costo delle tasse universitarie è stata di 1.160 euro per chi non accede ad alcuna borsa di studio.

Il Rapporto sullo stato sociale  curato da Roberto Pizzuti invece – che guarda però a un pubblico un po' più "anziano" (25-30 anni) – inquadra la questione giovanile a partire dalle diverse opportunità tra i "padri" (generazione cresciuta tra gli anni '50 e gli anni '70) e i "figli". Se i secondi hanno avuto maggiori disponibilità per realizzare il loro percorso scolastico (maggiori disponibilità dovute a una contrazione del numero di figli, che però ha anche fatto invecchiare il nostro paese) i primi hanno però avuto molta più fortuna quando si sono affacciati al mondo del lavoro.  Ai figli è toccato andare a lavorare "nel contesto di nuovi equilibri economico-sociali affermatisi con il passaggio dal keynesismo al neoliberismo", ovvero a una situazione di maggiore instabilità, flessibilizzazione, peggioramento della distribuzione del reddito con contemporanea contrazione dei sistemi di welfare, traslazione dei rischi economico-sociali dalle imprese ai lavoratori e dal pubblico al privato. Ma a questo fattore economico-politico se ne aggiunge un altro: ed è un fattore “psicologico”, annota il Rapporto. I “figli” prima di tutto fanno fatica a realizzare che non è più vero che la generazione successiva sta meglio della precedente, ma oltretutto insistono a considerare le scelte di formazione e di lavoro legate alla realizzazione individuale più che allo stato di bisogno.
E sono tanto”disarmati” questi giovani che poco si preoccupano del loro futuro pensionistico. Male. Perché il Rapporto spiega in due parole cosa li aspetta: “prima delle riforme del mercato del lavoro e nel sistema pensionistico avviate negli anni '90 , un lavoratore dipendente poteva normalmente accumulare 40 anni di contributi e ritirarsi anche prima di 60 anni con una pensione pari circa all'80% dell'ultima retribuzione. Nel 2035, un lavoratore parasubordinato che con difficoltà sarà riuscito ad accumulare 35 anni di annualità contributive, pur ritirandosi a 65 anni, maturerà un tasso di sostituzione di circa la metà”. Insomma, dalle stelle alle stalle, senza contare che in media i salari percepiti dai “figli” sono più bassi di quelli percepiti dai “padri”.

Ma sono stati decisi degli interventi per arginare la crisi, si dirà (direbbe Tremonti). Peccato che, di quei pochi interventi previsti, neanche uno è andato a favore dei giovani: gli individui sotto i 40 anni, scrive il rapporto, sono pressoché esclusi dai trattamenti di mobilità, mentre chi ha usufruito dell'indennità di disoccupazione tra il 2008 e il 2009 si è addirittura ridotta. Intanto, il tasso di disoccupazione complessivo che era sceso fino a circa il 6% è risalito al 9%, ma al netto dei cassaintegrati vola fino all'11%. Tuttavia tra i giovani tra i 15 e i 24 anni, dal minimo del 2007 (quando la disoccupazione era al 20,3%) siamo risaliti verso il 30% nel 2010. Se poi si va a disaggregare i dati confermano tutto ciò che sappiamo, la crisi, la disoccupazione, la mancanza di possibilità si abbatte principalmente sulle donne, soprattutto quelle che vivono nel meridione. Per loro la disoccupazione si attesta a un pauroso 43,6%.

Allora è vero che la laurea, come pensano le famiglie italiane stando all'Eurostudent, preparano un glorioso futuro ai nostri giovani? Intanto un dato: la famosa categoria dei “néné”, cioè né in occupazione né in formazione, in Italia è arrivata al 20% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, mentre la media europea è del 13%. Nell'Italia del Sud siamo al 30%. Ma l'elemento da sottolineare è che rispetto agli altri paesi mediterranei i nostri néné sono più qualificati, infatti in proporzione sono più i laureati che i diplomati. Ma non solo, nonostante l'aumento dei laureati dopo la riforma dell'università (che ne ha anche minato la credibilità – questo il Rapporto non lo dice, ma lo fanno intendere quelle 41 ore settimanali dedicate allo studio rilevate da Eurostudent) siamo ancora al 27simo posto in Europa. E oltretutto se la media europea di occupazione per i laureati sotto i 30 anni è dell86% in Italia è solo del 60%. Non solo: in Italia il sistema produttivo non richiede laureati. Lo dimostra il fatto che il 20,6% dei giovani occupati aventi una laurea triennale svolge un lavoro per il quale quel titolo non è rischiesto. Dato che sale al 30,3% se si somma quel 9,7% che svolge un lavoro per il quale il titolo è richiesto ma non è obbligatorio.

Un altro elemento che spiega come l'affacciarsi al mondo dell'università sia sempre di meno anche un "passaggio" verso l'indipendenza, lo racconta Eurostudent. Ormai tre studenti su quattro rimangono a casa di mamma e papà anche se studiano. Gli affitti carissimi, che si impennano nelle città universitarie, sconsigliano di trovare una stanza tutta per sé. E questo avviene persino quando si frequenta un'università ubicata in un'altra città da quella di residenza. infatti, secondo l'indagine, se su 4 studenti tre vivono ancora a casa dei genitori, di questi due su tre sono pendolari. D'altronde si parla di "mobilità" sociale.

Fonte: Il Manifesto

7 giugno 2011

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