Chi è rimasto a salvare vite?


Espresso.it


Nel Mediterraneo quasi tutte le navi delle Ong sono state fermate e bloccate. Mentre le istituzioni e le autorità nazionali e sovranazionali fanno finta di non vedere. E nasce un comitato per il diritto al soccorso.


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Era il 22 giugno 2015 e un’Europa sconvolta da quello che l’Unhcr definì il peggior naufragio della storia recente, l’affondamento di un peschereccio al largo delle coste libiche avvenuto due mesi prima e costato la vita a più di 800 persone, avviava la missione EuNavFor-Med. L’operazione, poi ribattezzata Sophia, dal nome della bimba nata su una delle sue navi durante una missione di salvataggio, aveva a disposizione la portaerei Cavour, la nave idrografica inglese Enterprise e le tedesche Werra e Schleswig-Holstein.

Sophia, con tutti i suoi limiti, nasceva con l’intento dichiarato di combattere il traffico di esseri umani e salvare vite umane. Le navi della task force europea a guida italiana, da gennaio 2016 a marzo 2019 avrebbe soccorso nel Mediterraneo centrale quasi 45mila persone.

Nello stesso periodo iniziavano a prendere il largo anche le navi delle Ong, tra le prime la nave Phoenix della maltese MOAS (Migrant Off-Shore Aid Station) con a bordo una clinica di Medici senza frontiere, che nel corso del 2015 impiegava le sue strutture ed il suo personale su altre due navi. Erano i mesi delle dichiarazioni sulla necessità di “reagire con la massima urgenza” e dei “mai più”.

Poi, mentre queste parole si svuotavano di significato, il Mediterraneo iniziava a svuotarsi di navi da soccorso.

Oggi a presidio del tratto di mare che continua a essere il più solcato dai migranti in cerca di salvezza non è rimasto quasi nessuno.

Per lo più tacciono le istituzioni italiane, come quelle europee. I naufragi però continuano. Secondo i dati dell’OIM nel 2020 nel Mediterraneo hanno perso la vita almeno 949 di cui 725 passando dalla rotta del Mediterraneo centrale, dalla Libia alle coste italiane. Nel solo mese di novembre sono annegate almeno 141 persone, tra cui il neonato Joseph. E il bollettino di morte poteva essere ancor più grave se non fosse stata in mare la Open Arms, unica nave rimasta nel Mediterraneo a soccorrere vite umane, che in due giorni è riuscita ad operare tre soccorsi, salvando più di 200 naufraghi.

«Oggi l’attività di ricerca e salvataggio è affidata al caso e alla buona volontà» afferma Luigi Manconi, già presidente della Commissione diritti umani e fondatore dell’associazione “A buon diritto”, ora responsabile del neonato Comitato per il diritto al soccorso, che continua: «Il diritto internazionale affida questo compito agli Stati costieri, ma la verità è che nessuno ha questa priorità. Non esiste più alcun sistema: ogni volta che si verifica un naufragio, se c’è un mercantile o una nave militare di passaggio, si fermerà, ma se non c’è nessuno, l’attività è affidata praticamente del tutto alle Ong e alla loro capacità di accorrere in tempo».

In questo momento però, eccetto Open Arms, tutte le altre navi sono ferme in un porto o sotto fermo amministrativo.

Il quadro della situazione lo fornisce Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere: la Alan Kurdi di Sea-Eye dal 9 ottobre è ferma al porto di Olbia, la Aita Mari di Salvamento Maritimo, Ong spagnola, è rimasta 49 giorni a Palermo dove era stata fermata a maggio, poi le è stato consentito di tornare in Spagna, ma dal punto di vista legale ancora non può operare soccorsi; la Ocean Viking di Sos Mediterranèe e la Sea Watch 3 sono state fermate a Porto Empedocle a luglio, la prima è ancora lì, mentre la seconda è stata poi autorizzata a raggiungere il porto di Burriana in Spagna, ma lì permane in fermo amministrativo; ancora, la Sea Watch 4 è ferma al porto di Palermo dal 17 settembre mentre la Mare Ionio di Mediterranea è a Venezia, ma lo scorso 26 ottobre, per la terza volta, gli è stato impedito l’imbarco dell’equipaggio.

Proprio questa situazione di stallo ha portato le Ong del mare a promuovere la nascita di un Comitato per il diritto al soccorso, composto da giuristi e intellettuali che possa svolgere, come si legge nel manifesto istitutivo, “una funzione di tutela morale dell’attività di salvataggio”. Il comitato vuole porsi come ponte nel ricostruire le relazioni tra le Ong e le istituzioni ma anche tra Ong e opinione pubblica perché «se un principio antico e universale come il diritto al soccorso viene messo in discussione, viene indebolita la tenuta democratica di un Paese, e la sua qualità morale», dice Manconi. Dal 2015 le Ong sono state progressivamente delegittimate ed è venuta a mancare l’interlocuzione politica con le autorità italiane, con le relazioni bloccate al piano formale e burocratico, continua il responsabile del comitato: «La situazione è cambiata parzialmente ora con la ministra Lamorgese, ma prima mi capitava di essere il solo a fare da tramite tra i due interlocutori». Il comitato sostiene poi l’emendamento del d.l. 130 sull’immigrazione, nella parte in cui disciplina il divieto di accesso, sosta e transito delle navi e l’interruzione della prassi dei fermi amministrativi.

In assenza delle Ong, in mare restano le autorità nazionali e sovranazionali.

Quello che serve, con un flusso costante come quello che segna il Mediterraneo centrale, è un sistema che verifichi e tracci i movimenti in quel tratto di mare e intervenga con prontezza. «Questo non avviene in alcun modo, perché l’Italia, dopo Mare Nostrum, sostanzialmente ha rinunciato ad un’attività strutturata e ad avere un ruolo pro-attivo nelle attività di ricerca e salvataggio: interviene solo quando si creano le circostanze, altrimenti chi attraversa il Mediterraneo è abbandonato a sé stesso» dice Manconi. Certo, è ancora attiva l’operazione della Marina Militare “Mare Sicuro”, che con sei navi sorveglia un’area di mare di circa 160mila chilometri quadrati nel Mediterraneo centrale, fino a nord delle acque territoriali libiche. Poi c’è la Guardia costiera italiana e quella maltese. Non si può però parlare di operazioni specificatamente dedicate al salvataggio, come spiega Lucia Gennari, legale dell’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione e parte del gruppo legale di Mediterranea, anche perché «le navi statali impiegate dall’Italia e da Malta tendono a non sostare più nelle zone dove transitano i migranti».

Quella della posizione in mare delle navi è una delle problematiche evidenziate anche per le operazioni europee.

Ne esistono ben quattro nel Mediterraneo, di cui due nella rotta centrale: Themis, dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, subentrata a Triton nel 2018, ed EuNavFor-Med Irini, 9,8 milioni di budget, attivata come missione PSDC (Politica di sicurezza e difesa comune) a marzo 2020, in sostituzione dell’operazione Sophia. «Entrambe sono caratterizzate da un mandato che si focalizza meno sul salvataggio e dall’arretramento dello spazio di movimento degli assetti navali rispetto alle missioni precedenti» dice l’avvocato Gennari.

Infatti Themis, se da un lato aggiunge il pattugliamento di due nuove aree oltre a quella libica, cioè il tratto di mare di fronte a Tunisia e Algeria a ovest e quello di fronte ad Albania e Turchia a est, dall’altro riduce la zona operativa italiana dalle 30 alle 24 miglia. A ciò si aggiunge un’altra novità: sulla regola del porto sicuro per lo sbarco dei migranti soccorsi, prevale quella del porto più vicino, quindi spesso quello libico o più in generale quello di partenza.

Irini al momento ha raggiunto la massima capacità operativa e da settembre dispone di tre navi. Rispetto a Sophia, che poneva l’accento sulla lotta al traffico di esseri umani in mare, la nuova missione si occupa quasi esclusivamente di far rispettare l’embargo sulle armi in Libia. Sul sito della Difesa, si legge che “i mezzi saranno impiegati dove potranno contribuire in modo più efficace all’attuazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite e quindi dove potranno intercettare meglio i flussi dei traffici illeciti”. Il punto è che queste zone sembrano non corrispondere mai alle rotte migratorie.

«In più quello che prevale è il pattugliamento aereo su quello navale», spiega ancora la legale dell’Asgi, «che ovviamente non implica il problema di dove sbarcare i migranti». Un rapporto pubblicato a giugno da un gruppo di Ong, “Remote Control”, accusa Frontex di aver dato il via a una prassi illegale, per cui gli aerei di pattuglia, avvistate le imbarcazioni dei migranti, anziché diramare l’allarme come previsto dal diritto del mare a tutti le navi presenti nell’area, se nella SAR (area di ricerca e salvataggio) della Libia, avvisavano solo la guardia costiera libica.

Fonti di Frontex sostengono invece che la ricerca e il salvataggio sono un elemento chiave della gestione europea integrata delle frontiere e che l’attività, inclusa nei piani operativi, ha portato al salvataggio quest’anno di 2700 persone. L’agenzia europea smentisce anche le ricostruzioni del rapporto, specificando che quando viene avvistata un’imbarcazione in pericolo, tutte le informazioni disponibili vengono fornite non solo al Centro di coordinamento del soccorso marittimo responsabile, ma anche a tutti i quelli vicini e ad altri attori che operano nell’area.

Critica verso l’agenzia europea è anche Medici Senza Frontiere, che da 4 anni lavora nei centri di detenzione in Libia. Secondo Marco Bertotto, responsabile affari umanitari di MSF: «Le operazioni europee sono state spostate dove di fatto non ci sono partenze, ad esempio a est di Tripoli, mentre i migranti, partono per lo più da Zuwara, Zawiya, Sabratah, a ovest della capitale libica». E ciò che avviene sul campo lo porta a dire che: «Oggi Frontex non è un alleato nelle attività di ricerca e soccorso ma, come richiesto dagli Stati membri, da priorità al controllo delle frontiere ed è più un supporto di intelligence per la guardia costiera libica per facilitarne gli interventi», aggiungendo che: «Anche le autorità italiane seguono la linea europea e viceversa». Interventi che più che come soccorsi sono definibili come intercettazioni, spesso violente, volte a una nuova deportazione verso le coste libiche, dove una volta sbarcate le persone tentano la fuga o vengono nuovamente incarcerate in quei centri di detenzione ormai noti. Sì perché l’ultimo attore, il più attivo nel recuperare e intercettare i migranti in mare è la guardia costiera libica, quella addestrata dalle stesse missioni europee, che opera a bordo di motovedette italiane, su cui sono stati recentemente avvistati anche militari turchi, che nasceva nel 2017 e nel 2018 aveva la sua area Sar, praticamente un’invenzione tutta europea.

Secondo l’OIM nel 2020 sono stati riportate in Libia più di 11 mila persone che tentavano di attraversare il Mediterraneo, come ennesima conseguenza dell’esternalizzazione delle frontiere che, per usare le parole di Bertotto, «è un’ipocrisia, che si traduce semplicemente nel respingimento delle persone».

Il quadro non è solo quello di un diffuso tentativo di sgravarsi dalle proprie responsabilità, ma racconta anche un pericoloso ribaltamento dei principi del diritto internazionale, di quello del mare e umanitario, da parte degli Stati e dell’Unione europea.

«Il ruolo dell’Italia deve essere essenziale e di promozione ma non isolato: è giusto che svolga la sua funzione per conto e insieme all’Europa. L’ideale sarebbe un sistema continentale declinabile in diverse soluzioni, e che dovrebbe includere anche operazioni multinazionali, nella prospettiva di un’equa distribuzione delle persone soccorse tra i paesi membri dell’Unione», sostiene Manconi. Studiare quale possa essere questo sistema sarà il primo progetto a cui il Comitato lavorerà.

DI GIULIA FERRI

L’Espresso

30 novembre 2020

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