Rafah o morte


il Manifesto


Partono gli ordini di evacuazione, decine di migliaia di palestinesi in fuga dal sud della Striscia, ma Israele colpisce ormai ovunque, anche se il leader di Hamas non è più lì. Il dipartimento di Stato: le armi Usa “potrebbero” aver violato il diritto umanitario


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Nidal Abu Samadana preferisce Deir al Balah. «Gli israeliani ci ordinano di andare a Mawasi e Khan Yunis, ma noi andiamo al centro di Gaza» dice mentre carica di cibo, abiti e altro sulla sua vecchia Opel con l’aiuto della moglie e dei quattro figli. «A Mawasi non c’è più posto, vanno tutti lì. A Khan Yunis non c’è nulla, è un deserto di macerie», aggiunge stringendo con una corda i materassi sottili che saranno i letti per la sua famiglia nelle prossime settimane o, forse, mesi. «Cosa sarà di noi non lo so, sappiamo solo che a Deir al Balah abbiamo qualche possibilità in più di trovare posto e di scampare ai bombardamenti», conclude Abu Samadana residente nel quartiere di Khirbat al Adas di Rafah. Da ieri è uno dei circa 300mila palestinesi, abitanti e sfollati, che negli ultimi giorni hanno abbandonato la città con ogni mezzo, anche a piedi, in seguito ai nuovi ordini di evacuazione lanciati dall’esercito israeliano che dall’est di Rafah ora comincia ad avanzare verso il centro. Un fiume umano che si ingrossa di ora in ora mentre, lo mostrano le immagini satellitari, si svuotano di pari passo le tendopoli allestite per accogliere sul confine con l’Egitto un milione di sfollati prima dal nord di Gaza e poi anche dal centro e da Khan Yunis riemersa distrutta dopo tre mesi di attacchi militari.

L’esercito israeliano avanza lungo il confine tra Gaza e l’Egitto ma colpisce anche nel nord e nel centro, con intensi bombardamenti di aerei e carri armati. «Decine di civili, fra cui un giornalista, Bahaa Okasha, sua moglie e suo figlio, sono stati uccisi a Jabaliya e altri sono rimasti feriti», scriveva ieri l’agenzia di stampa Wafa. Altre vittime a Gaza city, dove è stata colpita l’abitazione della famiglia Siam. Dieci morti anche ad Al Zawaida, nel centro della Striscia: una bomba ha polverizzato la casa della famiglia Al Khatib. Al Jazeera ieri ha mostrato immagini di corpi di vittime chiusi negli involucri bianchi divenuti uno dei simboli più tristi di questa offensiva israeliana cominciata sette mesi fa. Cadaveri, una trentina, che non possono essere conservati in attesa del riconoscimento nei frigoriferi dell’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah. Non c’è posto e vanno seppelliti al più presto.

All’ospedale Shifa di Gaza city, è stata trovata un’altra fossa comune, con almeno 80 corpi, la quinta da quando le truppe israeliane hanno concluso circa due mesi fa l’«operazione antiterrorismo», in cui centinaia di palestinesi sono stati uccisi o arrestati. Sono una dozzina le fosse comuni che i palestinesi hanno denunciato in questi mesi, nei pressi di ospedali come lo Shifa e il Nasser di Khan Yunis.

Le truppe israeliane continuano i rastrellamenti a Zeitun (Gaza city), a Jabaliya e Beit Lahiya dove, secondo i comandi militari, Hamas starebbe riorganizzando le sue forze speciali, le unità Nukhba. Si tratta di combattenti che in gran parte si trovavano a Rafah e che, prima dell’avanzata annunciata e poi attuata da Israele contro la città – «per distruggere quattro battaglioni di Hamas», ripete il premier Netanyahu –, hanno abbandonato la città per evitare di essere presi in trappola. Uno sviluppo che rende ancora più amaro il destino di Rafah che rischia di finire in macerie come gli altri centri abitati della Striscia. Peraltro, gli apparati militari israeliani ammettono che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, non si nasconde più a Rafah. Secondo informazioni di intelligence, si troverebbe in tunnel nell’area di Khan Younis.

Il Times of Israel, citando funzionari governativi, scrive che molti combattenti di Hamas a Rafah si sono riorganizzati al nord e in altre aree di cui Israele nei mesi scorsi diceva di avere preso il controllo. L’esercito sa bene che il gioco del gatto e del topo andrà avanti per lungo tempo se non ci sarà una tregua, perché l’ala militare del movimento islamico dopo sette mesi è ancora ben organizzata e in grado di infliggere perdite alle forze israeliane con le tattiche classiche della guerriglia. I «successi» militari israeliani appaiono di breve durata, anche perché Netanyahu non ha trovato alcuna «parte civile» disposta ad amministrare le aree occupate di Gaza collaborando con le forze di occupazione e contro la resistenza palestinese. Le sue posizioni ideologiche, sempre più vicine alla destra radicale, gli impediscono di coinvolgere l’Autorità Nazionale di Abu Mazen perché, con l’appoggio degli Usa e dell’Europa, afferma di voler costruire uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. La destra israeliana invece vuole mantenere Gaza sotto il controllo di Israele e ricostruire gli insediamenti ebraici.

Ieri Hamas ha diffuso un video annunciando che l’ostaggio israeliano, con cittadinanza britannica, Nadav Popplewell, è «morto per le ferite riportate durante un raid israeliano» più di un mese fa. A Tel Aviv, con lo slogan «Riportate a casa i vivi e i morti», ieri sono scese in piazza le famiglie degli ostaggi per chiedere un accordo con Hamas per il loro rilascio. In Cisgiordania i palestinesi hanno commemorato Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa due anni fa a Jenin da spari di soldati israeliani durante una incursione dell’esercito nel campo profughi della città.

Fonte: Il Manifesto 12 Maggio 2024

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