Quello che si vede da un traliccio. O da un palo della luce


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Questo ragazzo si era arrampicato su uno degli altissimi pali della luce che si trovano a piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Novembre 2011, quando Tahrir è stata di nuovo il teatro dello scontro tra gli attivisti e le forze di sicurezza.


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Quello che si vede da un traliccio. O da un palo della luce

Questo ragazzo si era arrampicato su uno degli altissimi pali della luce che si trovano a piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Novembre 2011, quando Tahrir è stata di nuovo il teatro dello scontro tra gli attivisti e le forze di sicurezza. Il ragazzo sul palo della luce ha fatto parte, in quest’ultimo anno, dell’iconografia della rivoluzione egiziana. Sin dai primi giorni.

Da quel palo della luce, i ragazzi che vi salivano riuscivano forse a cogliere l’unicità di Piazza Tahrir. Riuscivano ad abbracciare con lo sguardo la sua grandezza. E allo stesso tempo, volevano (forse) rimanere a loro volta unici. Strappare se stessi dalla folla, dai milioni in piazza, ed essere a loro volta icona. Folli, pazzi, incuranti del pericolo? Sono molte le parole che possiamo usare per descrivere i ragazzi sui pali della luce. Ma non si è alzata nessuna voce, in Italia, per definirli cretinetti. Forse perché quei ragazzi erano troppo lontani dalle beghe nazionali. Chisseneimporta se uno di loro muore, o va in coma, o si fa molto male, cadendo da un palo della luce a Tahrir. E poi, quella è una rivoluzione. E nelle rivoluzioni si fanno cose strane, che non si farebbero in periodo normali.

Preferirei questa indifferenza, e questa lontananza, al chiacchiericcio da bar e a quei giudizi impietosi, di cui vergognarsi, che leggo oggi sulla stampa italiana. Non pretendo la normale pietas, quella che dovrebbe albergare in ogni uomo e in ogni donna. Ma almeno l’indifferenza. Non perché dell’indifferenza non ci si debba vergognare, ma è almeno silenziosa. E meglio il silenzio delle grancasse…

Quello che è successo ieri in Val di Susa segnala (e insegna) varie cose. Intanto, che non è vero che l’Italia sia cambiata di punto in bianco. Non basta, insomma, che si cambi governo perché ci si possa liberare di tutto il vocabolario cinico, vergognoso, razzista che in questi venti anni ha avuto la meglio nel nostro Paese (lo scrivo ancora con l’iniziale maiuscola). La tragedia di Luca Abbà, e le manifestazioni non violente di questi ultimi giorni, insegnano poi che anche l’Italia è stata toccata dal vento che corre dal Cairo ad Atene, da Wall Street a Oakland. E cioè, anche in Italia c’è chi si ribella (dal basso) a decisioni che non si considerano rappresentative, giuste, e compatibili con la propria vita.

Non so, insomma, se abbiano ragione i NoTav oppure chi vuole l’alta velocità Torino-Lione. Non è rilevante quello che io, a distanza, penso di ciò che succede in Val di Susa. È importante, invece, quello che sta succedendo lì, in Val di Susa, lontano da Roma, e lontano anche da una classe politica che deve ancora bagnarsi in un lavacro tanto necessario quanto improcrastinabile, per poter rappresentare il popolo-elettore. Mi ha colpito quello che uno degli esponenti della protesta NoTav ha detto ieri sera durante il collegamento con L’Infedele di Gad Lerner. Diceva, in sostanza, che la militarizzazione della Val di Susa gli sembrava come quello che gli israeliani fanno ai palestinesi: gli abitanti sono costretti a mostrare il lasciapassare per tornare a casa, c’è il filo spinato, stanno costruendo il muro… Ecco, quell’accenno a un posto così lontano da una valle piemontese mi ha confermato la prima sensazione che avevo. Una protesta locale non è localistica. Esprime solo una narrazione diversa dei fatti, degli eventi, del futuro, dello sviluppo, del rispetto, della concertazione, del processo decisionale. E soprattutto, dei diritti. Può accadere in Cisgiordania, nei paesini in cui ogni settimana si protesta per il Muro e per le colonie. Può succedere a Mahalla, nel Delta del Nilo egiziano, dove anni fa iniziarono le proteste sindacali che sono state, poi, uno dei pilastri della rivoluzione del 25 gennaio 2011. Può accadere in una valle piemontese, in cui la vera rivoluzione sta nel non accettare e, soprattutto, dare per scontata una concezione dello sviluppo che ha guidato la nostra esistenza negli scorsi decenni.

Non è detto, mi sembra dicano in Val di Susa, che quella concezione dello sviluppo sia l’unica possibile, e che la sua narrazione debba per forza essere l’unica accettata. Così, a scatola chiusa. Non mi sembra luddismo. Mi sembra una sana riflessione che nei circoli intellettuali viene rispettata, la riflessione sullo sviluppo sostenibile e sulla decrescita. Se, invece, a parlarne sono i contadini della Val di Susa, allora non va bene.

(Ho parlato dei valligiani, e della protesta locale. Non ho parlato delle manifestazioni noTav in altre parti d’Italia. Non ne ho parlato perché, a naso, ho più di una perplessità. Il linguaggio, il vocabolario che ho sentito nelle interviste, che leggo su FB, non mi piace. È vecchio tanto quanto quello della classe politica. Il vero vocabolario nuovo lo esprimeva, ieri sera dalla Val di Susa, la signora Marisa, che non è giovane, e che forse ha respirato un po’ dell’aria che c’era parecchi decenni fa. Se non mi sbaglio, anche la Valle di Susa fu uno dei centri della Resistenza… Ecco, le sue parole era semplici, chiare, efficaci. Molto lontane dalla trita retorica movimentista che ho sentito venire da altre parti)

Fonte: http://invisiblearabs.com
28 Febbraio 2012

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