Quella struttura scomoda per scelta


Emanuele Giordana - Lettera22


Che alle autorità afgane Emergency non sia mai piaciuta non è una novità. L’11 di aprile del 2007, lo staff internazionale di Emergency a Kabul decide di lasciare il Paese. Davanti all’ospedale non c’è più nessuno: non le code di padri zoppi con bambini malandati.


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Quella struttura scomoda per scelta

Solo un guardiano che rudemente ci allontana. Il fotografo Romano Martinis riesce a rubare un immagine prima di essere allontanato brutalmente: un padre che esce col suo bimbo in braccio, segno che l'ospedale è ancora in attività. Poi infatti si saprà che qualcuno è rimasto: tre cittadini italiani, un belga, uno svizzero. Minacciosa, un'auto verde della polizia afgana presidia il nosocomio. Dieci giorni dopo Emergency annuncia che si ritira dal paese, un colpo di scena che è l'apparente epilogo (poi la Ong ritornerà) della brutta vicenda di Ramatullah Hanefi, l'uomo di Emergency a Lashkargah che ha contribuito alla liberazione di Daniele Mastogiacomo, l'inviato di Repubblica sequestrato dai talebani. Hanefi viene arrestato dall'intelligence afgana e sbattuto in carcere con l'accusa infamante di essere un fiancheggiatore. Accusa che passa orizzontalmente all'organizzazione di Gino Strada. Lo scontro è aperto. Si risolverà solo dopo una faticosissima mediazione (che impegna direttamente il governo italiano e l'ambasciatore a Kabul Ettore Sequi) col proscioglimento di Hanefi in giugno. Ma intanto son corse scintille: Emergency accusa Kabul di volergli soffiare i suoi gioielli, gli ospedali costruiti negli anni e proprietà della Ong.

L'organizzazione di Strada è su piazza dal 1999 e ha fornito assistenza medica e chirurgica gratuita a forse due milioni di afgani ad Anabah, Kabul e Lashkargah, nel centro di maternità e medicina in Panjshir, nelle 25 cliniche e posti di primo soccorso e nelle 6 cliniche delle prigioni afgane. Un lavoro importante anche se i critici hanno spesso messo in luce i rischi di un'attività parallela a quella della sanità pubblica. Eppure questa Ong ha fatto anche altro. Ben prima del 2001 darà una mano all'allora sottosegretario agli esteri Ugo Intini per creare una possibile traccia di dialogo utilizzando proprio i suoi ospedali: quello a Kabiul sotto regime talebano e quello al Nord sotto la protezione degli uomini di Ahmad Shah Massud il comandante antitalebano. L'amicizia col vecchio Leone del Panjshir e gli stretti legami con gli uomini dell'Alleanza del Nord, alleati di Karzai a giorni alterni, deve pur valere a Emergency qualche contrasto che poi finisce con l'esplodere con la vicenda di Hanefi, le intimidazioni all'ospedale di Kabul, il fastidio manifesto per una Ong che agisce per fatti suoi e spesso si scontra coi ministeri.

Ma i nemici, Gino Strada e i suoi medici non li ha solo nel governo di Kabul. Ong militante per scelta, Emergency non risparmia mai le sue critiche contro i bombardamenti e la decisione di stare a Lashkargah, sulla linea del fronte delle due regioni più ribelli di Kandahar e Helmand, si spiega proprio col desiderio di continuare ad aiutare chi soffre di più. E senza fare differenza se chi è ferito ha un turbante da talebano o uno straccio sfilacciato per coprire il capo. Durante l'Operazione Moshtarak, quella iniziata in febbraio proprio a sud di Lashkargah, Emergency denuncia l'impossibilità per molti afgani di un accesso alle sue strutture. Alza la voce, si scontra con la Nato, l'esercito afgano e i militari americani, irritando persino la Croce rossa. Dà fastidio insomma questa gente che si schiera sempre dalla parte dei dannati e che non vuol sentir ragioni. Che non smette di magafonare le sue posizioni appena ha l'occasione di farlo alle orecchie per lo più disattente delle opinioni pubbliche occidentali.

Il blitz appare così una doccia fredda dai contorni ancora oscuri ma che non si può fare a meno di situare in una cornice che vede la Ong di Strada sempre molto esposta. E con lei i suoi medici, gli infermieri, il personale locale sempre un po' spiato per capire da che parte sta. E alla vigilia del viaggio del direttore generale della Cooperazione a Kabul previsto a fine mese, anche il governo italiano sembra prendere in qualche modo le distanze da un'organizzazione con cui c'è sempre un atteggiamento di amore-odio, di imbarazzo per la difficile miscela umanitaria condita da Emergency: aiutare sempre e comunque le vittime e continuare anche a denunciare l'orrore della guerra.

Fonte: Il Riformista

12 aprile 2010

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EMERGENCY, L'OSPEDALE DI LASHKARGAH RISCHIA DI CHIUDERE

Nel giorno delle smentite si va avanti dell'improbabile confessione si fa strada la preoccupazione che il centro di Lashkargah possa rischiare la chiusura. E per sabato la Ong milanese chiama tutti in piazza a Roma. Ancora incerto il futuro e le accuse ai medici italiani e ai sei afgani dell'ospedale

Sul caso Emergency è il giorno delle smentite e delle ritrattazioni. Messe a punto di discutibili notizie circolate, attraverso il Times di Londra, su un'improbabile confessione a tambur battente dei medici italiani e dei sei afgani arrestati sabato a Lashkaragh, il centro di salute di Emergency nel Sud dell'Afghanistan di cui adesso si paventa la chiusura. Secondo Mohammad Hashim Mayar infatti (vice direttore di Acbar, consorzio di un centinaio di Ong afgane e internazionali con sede a Kabul), se le autorità confermeranno le accuse, la struttura rischia la chiusura immediata. Intanto, proprio per sgomberare l'orizzonte da boatos e allusioni, molte delle quali fatte circolare con scarso fairpaly da esponenti del centrodestra, Emergency ha organizzato per sabato a Roma una manifestazione nazionale per chiedere la liberazione degli operatori umanitari che, secondo la Ong, sono vittime di un vero e proprio sequestro di persona.
La guerra resta nel frattempo la cornice di una vicenda oscura e sulla quale il governo continua a mantenere un profilo poco convincente anche se all'ambasciata di Kabul, a quanto si sa, i diplomatici stanno lavorando sodo per garantire agli arrestati le garanzie di cui purtroppo non tutti godono nelle carceri afgane. Ieri però è stata anche un'ordinaria giornata di sangue in Afghanistan: almeno quattro civili sono stati uccisi e 18 feriti da un raid aereo nel sud della provincia di Kandahar che ha centrato una corriera. L'effetto sulla popolazione locale è stato immediato: una folla inferocita ha circondato la corriera lanciando slogan e bruciando copertoni. Settimana scorsa la Nato aveva ammesso la colpa per la morte di tre donne durante un raid nell'Est in febbraio mentre è in corso un'inchiesta per un altro raid e altri quattro morti nel Sud dell'Helmand.
Sul fronte di Emergency il portavoce del ministero dell'Interno a Kabul Zamaray Bashary ha spiegato all'Ansa che l'inchiesta dei servizi di informazione afgani sulla vicenda delle armi rinvenute nell'ospedale di Emergency a Lashkargah è ancora in corso mentre il portavoce del governo di Helmand, Daud Ahmadi, si è affrettato a smentire di aver mai associato, in una telefonata col Times di Londra di aver parlato di un “legame fra gli italiani ed Al Qaida”. Secondo un operatore di Emergency invece “,,,siamo stati accusati di fiancheggiamento perché curiamo anche i talebani”, ha detto Antonio Molinari intervenendo a un incontro Ispi a Milano: “La situazione è molto delicata, non abbiamo notizie dei nostri medici – ha detto l'operatore, che è stato diverse volte in Afghanistan – non siamo riusciti a parlare con nessuno di loro e ormai sono passate molte ore”. “All'ambasciatore italiano in Afghanistan non è stato concesso di incontrare i tre trattenuti”, spiega all'AdnKronos Cecilia Strada(figlia di Gino), presidente di Emergency, che agiunge “sull'innocenza dei tre non solo metto la mano sul fuoco, ma ci metto la mia faccia e la mia carriera: non possono avere fatto nulla per giustificare tale comportamento ad opera delle autorità afgane”. La presidente di Emergency ha inoltre riferito che vi sono altri 6 appartenenti all'organizzazione umanitaria, 5 italiani ed un indiano, ai quali non è permesso lasciare la città.
Tra indiscrezioni, boatos e smentite l'affare resta oscuro. Il corrispondente del Times in Afghanistan, Jerome Starkey, conferma che il portavoce del governatore della provincia di Helmand ha invece parlato di confessione dei nove arrestati sul loro ruolo nel complotto per uccidere il governatore Gulab Mangal. Smentito da “Il Giornale”, che con una telefonata in Afghanistan aveva rimesso al suo posto le cose, come hanno poi dimostrato le successive dichiarazioni caute di Kabul, il Times insiste dicendo di essere sicuro di quanto ha scritto. La vicenda sembra per altro confermare una nebulosa di vasta portata in cui si sono inserite le improvvide dichiarazioni di esponenti di governo: per il ministro della Difesa Ignazio La Russa Gino Strada dovrebbe essere più prudente, evitare di gridare al complotto e sarebbe più saggio se “prendesse le distanze dai suoi collaboratori”, proprio come ha fatto Frattini a caldo sabato scorso dopo l'arresto. Anche Maurizio Gasparri si è unito al coro dicendo la sua sui contatti “opinabili” di Emergency in Afghanistan.
Ma se sul fronte del governo si pensa generalmente così, propendendo a una lettura politica del caso e in attesa che Frattini riferisca dopodomani in parlamento e che Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ascolti sempre mercoledì il direttore dell'Aise, generale Adriano Santini sulla vicenda, molti parlamentari (della sinistra) hanno espresso la propria solidarietà a Gino Strada e all'organizzazione. E così il mondo dell'associazionismo: Terre des Hommes, tra gli altri, chiede un intervento attivo della Farnesina “che ha la responsabilità di seguire tutti gli espatriati che si trovano in situazioni così delicate”. La rete della società civile italiana “Afgana” sollecita anche un intervento dell'Unione europea e chiede inoltre alla Nato di “chiarire definitivamente quale parte abbiano avuto i soldati Isaf nell'operazione e per quale motivo vi abbiano partecipato”, come dimostra un video diffuso dall'Associated Press.

Fonte: Lettera22, il manifesto

13 aprile 2010

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