Quella pietà occidentale che scivola presto nell’indifferenza


La Stampa


Lo slancio umanitario procede a ondate, è diventato una moda o un obbligo. Tra qualche settimana la folla fuori dall’aeroporto di Kabul sarà dimenticata.


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La pietà quando procede a ondate, quando diventa una moda mi spaventa. E la nostra, di occidentali, così furiosa, inflessibile anche nei confronti dei beneficiati, come una burrasca, proprio per questo, ha labili durate ed esiti precari. Avviata verso un porto che non si sa, sveltamente, va in bonaccia, vele mosce e mare plumbeo, forza niente. Nel constatare che quelli che davvero sono in condizioni ancora umana, che se la prendono calda risultano i soliti pochi ultimi.

Per gli afghani, nell’avvio di un secolo indifferente, di una seccagna della misericordia con poche precedenze nella storia, nel giro di una settimana siamo diventati il continente della pietà, dello slancio umanitario. Non c’è associazione professionale, comune, circolo, che non voglia accaparrarsi l’afghano sventurato che fugge da un paese che gronda sangue, con la paura appiccicata addosso. Ministri tatuati dalla precedente esperienza in governi rimpinzati di livori xenofobi, che hanno incatenato migliaia di analoghi fuggiaschi al destino di ingombro amministrativo da rispedire indietro con foglio di via poliziesco, si avventano sulla necessità, anzi la obbligatorietà dell’umanitario. Politici e pensatori euro qui ed euro là, con la faccia intensa di chi compie un dovere ingratissimo senza imboscarsi nei distinguo, esigono dagli onnipotenti G20 ponti aerei infiniti.

Emergenza umanitaria: fa capolino nell’aggettivo una sfumatura strumentalmente riduttiva. Rimanda cioè a una sciagura quasi naturale, terremoti inondazioni carestie. Scivola indietro l’elemento storico di questo disastro, ovvero che gli uomini le donne e i bambini da salvare sono i relitti di un naufragio politico che ha ben evidenti responsabili, americani e soci, tra cui anche quelli che si offrono di porvi rimedio, per slancio appunto umanitario.

Allora si avviano raccolte di pannolini per i bimbi afghani, seguiranno a giocattoli dismessi, carrozzelle, vestiti quasi nuovi, quaderni. Qualche ditta annuncia la destinazione umanitaria di residui di magazzino per i vinti della Blitzkrieg taleban, ovviamente con ritorno pubblicitario, mi raccomando non si faccia sapere. Un sindaco alla radio, elencando l’istinto millenario alla solidarietà delle sue popolazioni, parlava dell’urgenza di “corridoi umanitari” per i derelitti del Panshir. Fatti salvi gli irriducibili denunciatori dell’ennesima “invasione” e del “prima noi poi si vedrà” tacciono gli sconci negoziati europei del dare e dell’avere, i traffichetti da mediatori.

La solidarietà è cosa che richiede pazienza, umiltà, silenzio, conoscenza di chi si deve aiutare che sono diventati i figli del Nulla, iniziano da sé stessi. Invece, dopo avere econmiato la buona volontà e lo slancio del cuore, bisogna chiedersi quanto durerà la moda afghana. Tra quante settimane dimenticheremo con la distrazione del disamore quelli rimasti fossilmente là, fuori dall’aeroporto di Kabul perché non avevano il pezzo di carta, e su quelli arrivati in paeselli e città si ammonticchieranno di nuovo valutazioni di parte, contraccolpi delle perizie ideologiche, lo sdegno con il filtro? Il cafard per averli tra i piedi…

Ogni tanto occorre farsi scaldare dal passato per non ripetere errori. Ricordo i siriani nell’epoca del bimbo affogato nel mare greco degli dei. Anche allora lo sdegno la pietà, l’accogliamoli tutti quasi universale. Come se ci fossero due eventi: quello vero, del massacro che durava da anni e a cui non avevamo posto alcuna diga; e l’altro rispecchiato televisivamente e sui social. Durò una settimana. Poi torniamo alle nostre indifferenze torbide, fragili, convenienti. La maggior parte di quelli che volevamo accogliere sono nei campi profughi in Libano e Giordania o sono stati consegnati al sultano turco Erdogan in cambio di cospicue somme di denaro.

Anche allora, come oggi, comparve la diabolica categoria, il rifugiato utile. Ovvero quello che ha conoscenze linguistiche tecniche e lavorative che ne consentiranno l’utilizzo proficuo nelle nostre macchine produttive. Ci si affanna nelle interviste ai fuggiaschi a scegliere quelli che hanno “titoli ed esami”, che hanno lavorato per le armate occidentali. L’afghano utile. La grande operazione umanitaria si autoriduce alla ricerca di manodopera, ovviamente a buon mercato.

Nella confusione impressionante di questo salvataggio, nell’onda piena di schiuma di questa pietà c’è posto anche per gli inutili, per quelli che parlano solo il dialetto pasthun, che non sono moderni? O c’è il rischio di accestarli tra gli innumerevoli che abbiamo già deciso di ignorare e negligere senza rimorsi?

Fonte:
Domenico Quirico
La Stampa
24 Agosto 2021

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