Quegli idranti che spazzano via i rifugiati eritrei ma che non possono nascondere le nostre responsabilità


Valerio Cataldi


Dietro quelle cariche di polizia e a quelle parole in sottofondo degli ufficiali che incitano a “spaccare braccia”, c’è la rimozione della nostra storia di paese coloniale che ha insegnato come si tortura, che è disponibile a compromessi con il regime sanguinario di Asmara.


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Le torture che subiscono i ragazzi eritrei dal regime dal quale cercano di scappare, hanno nomi italiani. La più terribile si chiama “elicottero”, consiste nel legare le braccia e le gambe dietro la schiena, lasciando a terra la persona sdraiata sulla pancia. Li lasciano per ore in quelle condizioni, succede a volte che le braccia si stacchino per la pressione delle corde tirate dalle gambe. Una variante si chiama “otto”, con un nodo analogo sulle braccia le persone vengono appese ad un albero, le dita dei piedi riescono a malapena a toccare terra e, alla fine, il peso del corpo produce lo stesso effetto: le corde tagliano la carne ed i muscoli delle braccia. Durano ore, a volte giorni interi quelle torture dal nome italiano, che il regime del dittatore eritreo Isaias Afewerki, impone ai ragazzini che scappano dal loro paese per sottrarsi al servizio militare obbligatorio che inizia a sedici anni e non finisce mai, come una condanna a vita.
Quelle torture vengono inflitte nelle prigioni sparse in tutto il paese, molte sono vecchie prigioni costruite dagli italiani quando l’Eritrea era una nostra colonia.
I disegni di quelle torture li ha fatti da Adal, sopravvissuto al campo di punizione del regime nell’arcipelago di Dahlak, che è stato costruito dagli italiani ed era un campo di prigionia per i prigionieri politici. La commissione delle Nazioni Unite che ha redatto la relazione che condanna il regime eritreo per crimini contro l’umanità, ha acquisito quei disegni come prova delle atrocità commesse. Un regime paragonato a quello della Corea del nord che oggi, dopo decenni di guerre, si scopre ricco di gas e petrolio. Un paese con il quale l’Italia ha recentemente ristabilito i rapporti diplomatici. Nel 2014 Lapo Pistelli, viceministro degli esteri, che di li a poco sarebbe diventato vicepresidente dell’Eni, è andato ad Asmara ad incontrare Afewerki, a stringergli la mano e a stabilire nuove relazioni bilaterali.
L’Italia ha scelto di assecondare il regime eritreo, anzi ha fatto di più: ha spinto affinchè l’Europa, concedesse un contributo di 300 milioni di euro per fermare il flusso in uscita di chi scappa per sottrarsi alla violenza ed alle torture. Finanziamenti inseriti nel processo di Khartoum, ovvero gli accordi europei con i paesi del corno d’Africa, quasi tutti governati da dittature sanguinarie, per fermare il flusso verso l’europa.
Dietro quegli idranti che spazzano via i rifugiati accampati a piazza Indipendenza c’è tutto questo. Dietro quelle cariche di polizia e a quelle parole in sottofondo degli ufficiali che incitano a “spaccare braccia”, c’è la rimozione della nostra storia di paese coloniale che ha insegnato come si tortura, che è disponibile a compromessi con il regime sanguinario di Asmara.

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