Per ricordare insieme un grande uomo, il pacifista convinto Martin Luther King
Floriana Lenti
Il 4 aprile del 1968 fu ucciso Martin Luther King. La lotta per cambiare le condizioni del suo popolo e guadagnare la parità dei diritti di fronte alla legge per i cittadini di qualsiasi razza è stata la scelta di fondo della sua breve vita.
La Tavola della pace vuole ricordare Martin Luther King a quarant'anni dalla sua morte.
Meno di quaranta anni fa, in America, c'erano fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri. A teatro, le balconate erano altrettanto separate e così i posti negli autobus pubblici. I bianchi dovevano stare con i bianchi. I neri con i neri. Martin Luther Kink ha trascorso la sua vita per abbattere le distanze raziali e per far valere i diritti umani.
Nasce ad Atlanta (Georgia) 15 gennaio 1929 nel Profondo sud degli States. Nel 1948 Martin si trasferisce a Chester (Pennsylvania) dove studia teologia. A Boston conosce Coretta Scott, che sposa nel '53. Nel periodo '55-'60, invece, è l' ispiratore e l' organizzatore delle iniziative per il diritto di voto ai neri e per la parità nei diritti civili e sociali, oltre che per l'abolizione, su un piano più generale, delle forme legali di discriminazione ancora attive negli Stati Uniti.
Nel 1957 fonda la "Southern Christian Leadership Conference" (Sclc), un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva.
Il culmine del movimento si ha il 28 agosto 1963 durante la marcia su Washington quando King pronuncia il suo discorso più famoso "I have a dream…".
Nel 1964 riceve ad Oslo il premio Nobel per la pace.
Nel mese di aprile dell'anno 1968 Luther King si recò a Memphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Mentre, sulla veranda dell'albergo, s'intratteneva a parlare con i suoi collaboratori, dalla casa di fronte vennero sparati alcuni colpi di fucile: King cadde riverso sulla ringhiera, pochi minuti dopo era morto.
Nel 1986 è stata istituita una giornata della memoria in onore di M.L.King, da celebrarsi il terzo lunedì di gennaio, in un giorno prossimo a quello della sua nascita. Il 18 gennaio 1993 il Martin Luther King Day è stato celebrato per la prima volta in tutti i cinquanta stati degli USA.
Questa sera in sua memoria a Roma si consegnerà un premio italiano per dare visibilità a quanti si impegnano per la difesa dei diritti delle minoranze, per la diffusione della cultura e della pratica della nonviolenza: questo lo scopo del "Premio Martin Luther King per i diritti umani", i cui vincitori sono – a pari merito – la "Scuola di Pace" di Napoli e l'"Associazione Iroko Onlus" di Torino.
Maggiori informazioni sull'evento sono scaricabili dal sito: http://www.ucebi.it
Riportiamo di seguito uno dei suoi scritti pubblicato su "Christian Century", 77, 13 aprile 1960.
Pellegrinaggio verso la nonviolenza
di Marin Luther King
"Mi è stato chiesto centinaia di volte perché abbiamo consentito che i nostri giovani marciassero nelle manifestazioni, gelassero e soffrissero in galera, fossero esposti alle pallottole e alla dinamite. La domanda sottintende che abbiamo dimostrato di avere poco senso della famiglia e di essere incuranti della sua sicurezza. La risposta è semplice. L'integrità dei nostri figli e delle nostre famiglie è messa in discussione sempre più ogni giorno. Se si può porre termine a continui supplizi con un singolo confronto finale, i rischi divengono accettabili. Inoltre, se lotteremo assieme, la nostra vita familiare rinascerà. Altre famiglie sono abbastanza fortunate da potersi permettere di proteggere i loro figli dal pericolo. Ma abbiamo visto che le nostre famiglie hanno una sorte diversa. Ripetutamente l'oppressione le ha divise e stritolate. Da un'epoca all'altra il nostro popolo è stato tormentato. Per noi è logico, morale e psicologicamente costruttivo resistere all'oppressione assieme alle nostre famiglie. Quest'unità, questo impegno a lottare assieme ci forgeranno. La forza interiore e l'integrità ci renderanno di nuovo interi".
Dieci anni fa stavo appena iniziando l'ultimo anno in seminario. Come gran parte degli studenti di teologia ero impegnato nello stimolante studio delle varie teorie teologiche. Essendo stato educato in una tradizione fondamentalistica piuttosto rigida, rimanevo a volte fortemente colpito quando il mio cammino intellettuale mi portava attraverso nuovi e talvolta complessi territori dottrinali. Ma nonostante lo sconcerto, quel pellegrinaggio era sempre elettrizzante e mi dava un gusto nuovo per il giudizio obbiettivo e l'analisi crilita. I miei primi studi teologici ebbero su di me lo stesso effetto che ebbe la lettura di Hume per Kant: mi risvegliarono dal mio sonno dogmatico. A questo punto del mio sviluppo intellettuale ero diventato un perfetto liberale. Il liberalismo mi dava una soddisfazione intellettuale che non avevo trovato nel fondamentalismo. Mi innamorai a tal punto delle intuizioni del liberalismo che caddi quasi nella trappola di accettare acriticamente tutto ciò che veniva sotto il suo nome. Ero assolutamente convinto della bontà naturale dell'uomo e della forza naturale della ragione.
Il cambiamento fondamentale del mio pensiero giunse quando incominciai a mettere in discussione alcune delle teorie che erano state associate alla cosiddetta teologia liberale. Naturalmente c'è una fase del liberalismo che spero perseguirò sempre: la sua devozione per la ricerca della verità, il suo insistere perché la mente rimanga sempre aperta ed analitica, il suo rifiutarsi a rinunciare alla luce della razionalità. Il contributo del liberalismo alla crilita filologica e storica della letteratura biblica e stato incommensurabile e dovrebbe essere difeso con passione religiosa e scientifica. Fu in particolare la dottrina liberale dell'uomo che incominciavo a mettere in discussione. Più osservavo le tragedie della storia e la deplorevole inclinazione dell'uomo a scegliere la via piu semplice, più comprendevo la profondità e la forza del peccato. La lettura delle opere di Reinhold Niebuhr mi rese consapevole della complessità dei motivi umani e della realtà del peccato ad ogni livello dell'esistenza dell'uomo. Inoltre giunsi a riconoscere la complessità del coinvolgimento sociale dell'uomo e la palese realtà del peccato collettivo. Giunsi a capire che il liberalismo era stato troppo tenero nei confronti della natura umana e che si volgeva verso un falso idealismo. Giunsi anche a vedere che il superficiale ottimismo del liberalismo sulla natura umana portava a sottovalutare il fatto che la ragione è offuscata dal peccato. Più pensavo alla natura umana più constatavo che la nostra tragica inclinazione al peccato fa sì che razionalizziamo le nostre azioni. Il liberalismo non vedeva che la ragione, da sola, è poco più che uno strumento per giustificare le modalità autodifensive dell'uomo. Priva della forza purificatrice della fede, la ragione non potrà mai liberarsi dagli stravolgimenti del pensiero e dalle razionalizzazioni. Benché sia stato costretto ad abbandonare alcune posizioni del liberalismo, non sono mai arrivato ad accettare del tutto la neoortodossia. Mentre da una parte accettavo la neo-ortodossia come un utile correttivo di un liberalismo diventato troppo tenero nei termini di cui dicevo, dall'altra non ho mai pensato che desse un'adeguata risposta alle domande fondamentali. Se il liberalismo era troppo ottimista nei confronti della natura umana, la neo-ortodossia era troppo pessimista. Non solo la ribellione della neo-ortodossia si era avventurata troppo sul problema dell'uomo, ma anche su altre questioni vitali. Nel suo tentativo di conservare la trascendenza di Dio, che era stata trascurata dal liberalismo, che ne affermava con eccesso di forza l'immanenza, la neo-ortodossia giunse all'eccesso di affermare un Dio che era nascosto, sconosciuto e «interamente altro». Nella sua ribellione contro l'eccesso di importanza posta dal liberalismo sulla forza della ragione, la neo-ortodossia è finita in un anti-razionalismo e in un semi-fondamentalismo, che pongono l'accento su un'angusta e non critica lettura della Bibbia. Sentivo che questo approccio era inadeguato sia per la chiesa sia per la vita personale. Perciò, sebbene il liberalismo non mi soddisfacesse sulla questione della natura dell'uomo, non riuscii nemmeno a trovare rifugio nella neo-ortodossia. Entrambe rappresentano una verità parziale. Per gran parte del liberalismo protestante l'uomo era definito soltanto nei termini della sua natura e della sua essenza, della sua capacità di fare il bene. La neo-ortodossia tendeva a definire l'uomo solamente nei termini della sua natura esistenziale, della sua capacità di fare il male. Una adeguata comprensione dell'uomo non si trova né nella tesi del liberalismo né nella antitesi della neoortodossia, ma in una sintesi che riconcilia le verità di entrambi. Durante l'ultimo decennio sono anche giunto ad apprezzare la filosofia dell'esistenzialismo. Il mio primo contatto con questa filosofia avvenne attraverso la lettura di Kierkegaard e di Nietzsche. In seguito mi volsi allo studio di Jaspers, di Heidegger e di Sartre. Tutti questi pensatori stimolarono il mio pensiero; pur trovando in ognuno punti discutibili, ciò nonostante imparai molto dal loro studio. Quando infine mi dedicai a un serio studio di Paul Tillich mi convinsi che l'esistenzialismo, nonostante il fatto che era diventato troppo di moda, aveva colto certe verità fondamentali sull'uomo e sulla sua condizione che non potevano essere sempre sottovalutate. La comprensione della «libertà limitata» dell'uomo è uno dei contributi più duraturi dell'esistenzialismo, e la percezione dell'ansia del conflitto che si produce nella vita personale e sociale dell'uomo, come risultato della pericolosa ed ambigua struttura dell'esistenza, è particolarmente significativa per noi, oggi. Il punto comune in tutto l'esistenzialismo, sia esso ateo o religioso, è che la condizione esistenziale dell'uomo è uno stato di straniamento dalla sua natura e dalla sua essenza. Nella loro ribellione contro l'essenzialismo hegeliano, gli esistenzialisti sostengono che il mondo è frammentato. La storia è una serie di conflitti che non si conciliano e l'esistenza dell'uomo è colma di ansia ed è minacciata dalla mancanza di significato. Mentre in nessuna di queste asserzioni esistenziali si trova la risposta ultima del cristianesimo, c'è molto in esse che il teologo può utilizzare per descrivere la vera condizione dell'esistenza umana. Sebbene la maggior parte dei miei studi accademici durante questo decennio sia consistito in teologia e filosofia generali, mi sono interessato sempre di più all'etica sociale. Naturalmente il mio interesse per i problemi sociali era già forte prima dell'inizio di questo decennio. Fin dai primi anni della mia adolescenza ad Atlanta, ero profondamente interessato al problema dell'ingiustizia razziale. Crebbi odiando la segregazione, considerandola razionalmente inspiegabile e moralmente ingiustificabile. Non ho mai potuto accettare il fatto di dover occupare la parte posteriore di un autobus o di dovermi sedere in un determinato settore di un treno. La prima volta che venni fatto sedere dietro una tenda in una carrozza ristorante, sentii come se la tenda fosse stata calata sulla mia personalità. Avevo anche imparato che il gemello inseparabile dell'ingiustizia razziale è l'ingiustizia economica. Vedevo come i sistemi della segregazione finissero con lo sfruttare il negro tanto quanto il bianco povero. Attraverso queste prime esperienze crebbi nella profonda consapevolezza delle varie forme di ingiustizia della nostra società. Tuttavia non incominciai la seria ricerca di un metodo per eliminare il male sociale fino a quando non entrai al seminario di teologia. Fui immediatamente influenzato dal vangelo sociale. Nei primi anni '50 lessi "Christianity and Social Crisis" di Rauschenbusch, un libro che ha lasciato un'impronta indelebile sul mio pensiero. Naturalmente c'erano dei punti sui quali non concordavo con Rauschenbusch. Sentivo che era divenuto vittima del «culto del progresso inevitabile» del diciannovesimo secolo, che lo aveva condotto ad un ottimismo ingiustificato nei riguardi della natura umana. Inoltre era giunto pericolosamente vicino ad identificare il regno di Dio con un particolare sistema economico e sociale: una tentazione alla quale la chiesa non deve mai cedere. Ma nonostante questi difetti Rauschenbusch diede al protestantesimo americano un senso di responsabilità sociale che non dovrà mai perdere. Il vangelo nelle sue espressioni più felici si occupa dell'uomo nella sua interezza, non solo della sua anima, ma anche del suo corpo, non solo del suo benessere spirituale, ma anche di quello materiale. Qualunque religione che si professi preoccupata dell'anima dell'uomo ma non della miseria in cui gli uomini si dannano, delle condizioni economiche che li strangolano e delle condizioni sociali che li paralizzano è una religione spiritualmente moribonda e in attesa di essere sepolta. Dopo aver letto Rauschenbusch, mi dedicai a un serio studio delle teorie sociali ed etiche dei grandi filosofi. Durante questo periodo avevo quasi perso la fiducia nella forza dell'amore per risolvere i problemi sociali. La filosofia del «porgi l'altra guancia» e dell'«ama i tuoi nemici» è valida solo quando gli individui sono in conflitto con altri individui; quando gruppi razziali e nazioni sono in conflilto e necessario un approccio più realistico. Quindi giunsi a studiare la vita e gli insegnamenti del Mahatma Gandhi. A mano a mano che leggevo le sue opere mi scoprivo sempre più affascinato dalle sue campagne di resistenza non violenta. L'intero concetto gandiano del satyagraha (satya è verità che equivale all'amore, e graha è forza; di conseguenza satyagraha significa forza dell'amore o forza della verità) aveva per me un grande significato. A mano a mano che approfondivo il mio studio della filosofia di Gandhi, il mio scetticismo sulla forza dell'amore diminuiva progressivamente, e giunsi a comprendere per la prima volta che la dottrina cristiana dell'amore messa in atto attraverso il metodo gandhiano della nonviolenza era una delle armi più potenti a disposizione degli oppressi nella loro lotta per la libertà. A quel tempo tuttavia avevo semplicemente una comprensione e una opinione intellettuale di quella filosofia, senza alcuna ferma determinazione ad organizzarla in attività socialmente efficace. Quando, nel 1954, mi recai come pastore a Montgomery, in Alabama, non avevo la benché minima idea che in seguito mi sarei trovato in una situazione nella quale si sarebbe potuta applicare la resistenza non violenta. Dopo aver vissuto per circa un anno in quella comunità, incominciò il boicottaggio degli autobus. La popolazione negra di Montgomery, stanca delle esperienze umilianti che doveva costantemente subire sugli autobus, espresse in una massiccia scelta di non cooperare la sua determinazione ad essere libera. Giunse a capire che in definitiva era più onorevole camminare per le strade con dignità piuttosto che prendere gli autobus nell'umiliazione. All'inizio della protesta la gente mi chiedeva di essere il loro portavoce. Nell'accettare questa responsabilità, la mia mente, consciamente o inconsciamente, fu ricondotta al sermone della montagna e al metodo gandhiano della resistenza non violenta. Questo principio diventò la luce guida del nostro movimento. Cristo forniva lo spirito e la motivazione, mentre Gandhi forniva il metodo. L'esperienza di Montgomery fece molto più di tutti i libri che avevo letto per chiarire il mio pensiero sulla non violenza. Con il passare dei giorni mi convinsi sempre di più della forza della non violenza. Vivendo attraverso l'esperienza effettiva della protesta, la non violenza era diventata più di un metodo al quale io davo assenso intellettuale; era diventata un impegno verso un modo di vivere. Molti problemi che non avevo chiarito intellettualmente sulla non violenza si risolvevano ora nella sfera dell'azione pratica. Alcuni mesi fa ho avuto il privilegio di visitare l'India. Il viaggio ha avuto su di me un grande impatto e mi ha convinto ancora di più della forza della non violenza. E' stata una cosa meravigliosa osservare gli incredibili risultati della lotta non violenta. L'India ha conquistato l'indipendenza, ma senza violenza da parte degli indiani. Le conseguenze di odio e di astio che di solito seguono una campagna violenta, in India non si trovano. Oggi, tra gli indiani e gli inglesi all'interno del Commonwealth, esiste una reciproca amicizia basata su una completa uguaglianza. Non voglio dare l'impressione di credere che la non violenza faccia miracoli dall'oggi al domani. Non è facile far uscire gli uomini dalle loro consuetudini mentali, oppure liberarli dai loro pregiudizi o sentimenti irrazionali. Quando i derelitti chiedono la libertà, i privilegiati reagiscono prima di tutto con astio e opposizione. Anche quando le richieste vengono fatte in termini non violenti, la reazione è la stessa. Sono sicuro che molti dei nostri fratelli bianchi di Montgomery e in tutto il Sud provano ancora del risentimento verso i leader negri, anche se questi leader hanno cercato di seguire la strada dell'amore e della non violenza. Dunque l'approccio non violento non muta immediatamente il cuore dell'oppressore. Per prima cosa, opera qualche cambiamento nel cuore e nell'anima di coloro che l'hanno adottato. Dà loro un nuovo rispetto di sé; mette in moto risorse di energia e di coraggio che essi non sapevano di possedere. Infine, mette in moto qualcosa nella loro coscienza così che la riconciliazione diventa realtà.
Durante gli ultimi mesi, sono giunto a comprendere sempre di più la necessità del metodo della non violenza nelle relazioni internazionali. Mentre, negli anni in cui ero studente, ero convinto della efficacia della non violenza nei conflitti tra gruppi all'interno delle nazioni, non ero ancora convinto della sua efficacia nei conflitti tra le nazioni. Sentivo che la guerra, mentre non avrebbe mai potuto essere un bene posilivo o assoluto, avrebbe potuto fungere da bene negativo, nel senso di prevenire l'allargamento e la diffusione di una forza malvagia. Ritenevo che la guerra, per quanto orribile, fosse preferibile alla sottomissione a un sistema totalitario. Ma sempre di più sono giunto alla conclusione che il potenziale distruttivo delle moderne armi da guerra elimina la possibilità che la guerra possa mai più servire come bene negativo. Se partiamo dal presupposto che il genere umano ha il diritto di sopravvivere, allora dobbiamo trovare un'alternativa alla guerra e alla distruzione. In un'epoca in cui gli sputnik si scagliano nello spazio e i missili balistici teleguidati scavano strade di morte nella stratosfera, nessuno più può vincere una guerra. Oggi la scelta non è più tra violenza e non violenza. E' tra non violenza e non esistenza. Non sono un pacifista teorico. Ho cercato di abbracciare un pacifismo realista. Non ritengo inoltre che la posizione pacifista sia senza peccato, ma che sia, in queste circostanze, il male minore. Perciò non ritengo di essere libero dai dilemmi morali con i quali si confrontano i cristiani non pacifisti. Ma sono convinto che la chiesa non può restare in silenzio mentre il genere umano affronta la minaccia di essere spinto nell'abisso dell'annientamento nucleare. Se la chiesa è fedele alla sua missione, deve porre termine alla corsa alle armi. Negli ultimissimi mesi mi sono convinto ancor di più della realtà di un Dio personale. Ma in passato l'idea di un Dio personale era poco più di una categoria metafisica che trovavo soddisfacente dal punto di vista teologico e filosofico. Ora è una realtà viva che è stata confermata dalle esperienze della vita quotidiana. Forse i momenti di sofferenza, di frustrazione e di angoscia che ho dovuto attraversare a causa del mio impegno in una difficile lotta mi hanno avvicinato ancora di più a Dio. Qualunque sia stata la causa, Dio è stato profondamente reale per me negli ultimi mesi. Nel bel mezzo dei pericoli che mi stanno intorno ho sentito la pace interiore e conosciuto risorse di forza che solo Dio può dare. In molti casi ho sentito la forza di Dio trasformare la fatica della disperazione nella letizia della speranza. Sono convinto che l'universo è regolato da un progetto d'amore e che nella lotta per la giustizia l'uomo ha dei compagni cosmici. Dietro le aspre apparenze del mondo c'è una forza benigna. Dire che Dio è personale non significa fare di lui un oggetto tra gli altri oggetti o attribuirgli finitezza e i limiti della personalità umana; significa prendere ciò che c'è di più elevato e di nobile nella nostra coscienza e affermarne in lui l'esistenza perfetta. E' certamente vero che la persona umana è limitata, ma la persona in quanto tale non implica necessariamente dei limiti. Significa semplicemente autoconsapevolezza e auto-direzione. Perciò, nel significato piu alto della parola, Dio è un Dio vivente. Ci sono in lui sentimento e volontà che rispondono alle più profonde domande del cuore dell'uomo: quindi Dio suscita preghiera e risponde alla preghiera. Il decennio che è appena passato è stato intensissimo. Nonostante le tensioni e le incertezze della nostra epoca, ha avuto inizio qualcosa di profondamente significativo. I vecchi sistemi dello sfruttamento e dell'oppressione stanno morendo e stanno nascendo nuovi sistemi di giustizia ed uguaglianza. In modo molto concreto la nostra è un'epoca nella quale è bellissimo vivere. Perciò non mi scoraggia guardare al futuro. Se pure è vero che il facile ottimismo di ieri è impossibile, se pure è vero che ci troviamo di fronte ad una crisi mondiale che spesso ci lascia come naufraghi nella tempesta del mare della vita, dobbiamo riconoscere che ogni crisi ha i suoi pericoli e le sue speranze. Ognuna di esse può portare salvezza o condanna. Lo spirito di Dio sa regnare supremo nel caos di un mondo oscuro.