Chi era Pawel Adamiwicz, sindaco di Danzica


Il Corriere della Sera


Diceva: «Siamo un porto aperto al mondo» Ucciso a 53 anni a colpi di pugnale. Gli inizi con Solidarnosc e le politiche per la libertà e l’accoglienza.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
veglia

Non è bastata una città in coda per donare il sangue al suo sindaco. Pawel Adamowicz è morto a 53 anni, colpito al cuore nella Danzica dei cantieri navali, dei grandi scioperi e di Solidarnosc.

Era il volto della Polonia aperta sul Baltico e al mondo, la Polonia che ha combattuto per la libertà e che a quella libertà non rinuncia. Il Paese che ieri sera gli ha reso omaggio vegliando in silenzio nelle piazze da Poznan a Varsavia. Pawel è stato ferito a morte da un 27enne che accusava l’opposizione liberale di averlo «torturato» con un’incarcerazione ingiusta.

Il 13 gennaio, nella sera di Danzica rischiarata dalle luci dei telefonini, Adamowicz partecipa al concerto benefico in diretta tv organizzato dalla Ong «Wosp» che raccoglie fondi per reparti di pediatria e organizza corsi di pronto soccorso. Simbolo dell’organizzazione, un cuore. Pochi secondi, il balzo sul palco dell’uomo in jeans armato di pugnale, il corpo di Pawel a terra in una pozza di sangue. L’aggressore afferra il microfono e si rivolge alla folla paralizzata: «Adamowicz è morto». Non ancora. I tentativi di rianimazione, la corsa in ospedale, l’intervento chirurgico di cinque ore mentre fuori dalla clinica universitaria i cittadini si raccolgono in preghiera. La lama di 15 centimetri ha raggiunto il cuore e lesionato gli organi interni, troppo a lungo il cervello è rimasto senza ossigeno e Pawel ha perso troppo sangue. Il cuore si ferma.

L’assassino si chiama Stefan, avrebbe smesso di assumere farmaci per disturbi psichici. Era uscito di prigione da poche settimane dopo aver scontato oltre cinque anni per rapina a mano armata.
Pawel Adamowicz era una figura di riferimento dell’opposizione liberale, capofila dei sindaci progressisti in un Paese che non sa ricomporre la frattura culturale tra centro e periferia e che vive una lacerazione profonda da quando, nel 2015, sono tornati al governo i nazionalpopulisti di Jaroslaw Kaczynski: il partito Diritto e giustizia ha avviato una serie di riforme radicali che hanno rafforzato l’esecutivo, perseguito il dissenso e isolato la Polonia sulla scena internazionale.

Rieletto nel 2018 con il 65% dei voti per il sesto mandato consecutivo, dal 1998 Adamowicz era primo cittadino della città dove la Polonia cominciò a sognare, con Lech Walesa in piedi su un muro di mattoni a sfidare il potere. Al liceo, si era unito a Solidarnosc, il primo sindacato libero del blocco comunista, partecipando alla distribuzione di volantini e stampa clandestina. Poi gli studi in Legge, la carriera universitaria e gli inizi in politica nello stordimento del crollo del regime, della transizione alla democrazia e della terapia choc per rifondare il sistema economico.
Sposato con Magdalena, padre di Antonina e Teresa (15 e 8 anni), Adamowicz aveva fatto della tolleranza e dei diritti delle minoranze i pilastri della sua azione di governo, schierandosi apertamente con la comunità Lgbt. Nel 2015 era uscito dal partito liberale Piattaforma civica, per ricandidarsi da indipendente. Ora si uniscono nel cordoglio tutte le forze politiche ma il Paese s’interroga sul clima d’odio che ha avvelenato il dibattito pubblico. «La responsabilità di quanto è accaduto è della politica» dice il Nobel Lech Walesa.
«Europeo», così si definiva Pawel. E nel pieno dello scontro tra Est e Ovest sull’accoglienza invitava i migranti nella sua città: «Danzica è un porto, sarà sempre un rifugio per chi arriva dal mare».

Corriere della Sera

15 gennaio 2019

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento