Parte l’exit strategy afgana
Emanuele Giordana - Lettera22
Le date ci sono. Luglio 2011 per iniziare il ritiro; 2014
“Resteremo fin che sarà necessario”. Declina così il segretario della Nato Anders Fogh Rasmussen l'exit strategy dall'Afghanistan suggellata dal vertice di Lisbona e oggetto di un documento firmato dal presidente afgano Hamid Karzai che infatti recita “long-term security partnership”. Ma intanto le date ci sono e anche maggior chiarezza su quel che vogliono dire: luglio 2011 per iniziare il ritiro; 2014 – come aveva indicato in luglio la Conferenza di Kabul – per completare il passaggio di consegne, distretto per distretto, a esercito e polizia afgani. Un piano, notano gli osservatori, ricalcato sulle decisioni americane o, per meglio dire, sull'idea che Obama si è fatto dell'exit strategy dal Paese asiatico e ribadita all'inizio dei lavori di Lisbona. Tutto chiaro e lineare? Più o meno.
Al tavolo ci sono tutti: i Paesi Nato, i rappresentanti degli altri partner di guerra non Nato, Rasmussen che fa gli onori di casa, Ban Ki-Moon per le Nazioni unite, Obama e Karzai, i due poli decisivi del conflitto. Mancano ovviamente solo i talebani per i quali Rasmussen ha parole dure: il ritiro – dice – non è la loro vittoria e non si illudano, conclude (alludendo al famoso slogan dei jihadisti: “voi avete l'orologio noi il tempo”), che sia sufficiente attendere fin che la Nato se ne sarà andata. Perché, come ha suggerito un ufficiale britannico, in Afghanistan si resta fin che servirà, forse anche trent'anni. Qualche ora dopo arriva il commento della guerriglia in turbante: “La Nato è destinata alla sconfitta”.
Ma accanto alle presenze ci sono numerose assenze: il processo di pace, a uno stadio più che iniziale e molto fragile e su cui si glissa volentieri, le polemiche tra Karzai e Petraeus, l'uomo forte a capo della Nato che, più di una volta, si è scontrato anche con Obama (“non sono scolpite nella pietra” aveva detto a proposito delle famose date del ritiro). Sono assenti i nomi delle province che inizieranno a passare di mano e resta inevasa l'aspettativa di capire da dove comincerà il ritiro di cui per ora si sa solo la stagione: l'estate prossima. Anche gli afgani sembrano assenti dal dibattito dei grandi e Lisbona non risponde all'appello lanciato alla viglia del summit da 29 organizzazioni umanitarie sulla protezione dei civili (da Oxfam alla rete italiana “Afgana”, dalla Commissione indipendente afgana per i diritti umani a varie Ong europee impegnate sul terreno). Troppo scarsa secondo gli umanitari che snocciolano cifre: il 31% di vittime civili in più rispetto all'anno precedente e una crescita indiscriminata dei bombardamenti, ferita sempre sanguinante di una guerra che a luglio 2010 aveva già totalizzato, secondo l'Onu, più di 1200 vittime innocenti.
Anche sul post ritiro è nebbia fitta: Al Jazeera riferisce di un'indagine nelle province del Sud secondo cui emergerebbe una larga maggioranza del 60% che esprime sfiducia sul fatto che l'esercito afgano sia in grado di gestire il passaggio di consegne. Anche perché, aggiunge ancora il dossier degli umanitari allegato all'appello (“Nowhere To Turn”), la polizia e l'esercito afgano non sembrano dare quelle garanzie di rispetto dei diritti della popolazione che ci si aspetterebbe da un buon esercito nazionale. Ma il dado è tratto e, nel bene o nel male, Lisbona sancisce una svolta, per quante nubi possano avvolgerla.
Del resto la guerra è cara per l'Occidente e costa molto anche in vite umane. Se in denaro la sola Italia spende per mantenere il contingente militare (4mila soldati entro la fine dell'anno) un milione e mezzo di euro al giorno, il numero dei soldati Nato (circa 130mila più altri 10mila in forza a Enduring Freedom) uccisi in combattimento (in gran parte americani) continua a crescere e, nel corso del 2010 – l'anno più funesto -, siamo già arrivati a quota 654 vittime.
A Lisbona anche l'Italia fa la sua parte e incassa il ringraziamento di Obama: i 200 istruttori che Roma manderà in Afghanistan sono, per Franco Frattini, il segno che il Belpaese crede nella transizione e dunque nel compito di assicurare un appoggio che, dice il titolare della Farnesina, l'Italia continuerà anche dopo il 2014. Viene legittimo domandarsi se il risparmio di denaro che deriverà dal ritiro verrà reinvestito nell'appoggio all'Afghanistan civile e non solo a quello militare. Un decimo di quello che l'Italia risparmierà da qui al 2014 ritirando i soldati basterebbe. O la mannaia del Tesoro ingoierà tutto lasciando agli afgani, al di là delle promesse, solo qualche briciola?
Fonte: Lettera22
12 novembre 2010