Pacifismo cercasi


Fabio Dessi


Si avvicina la Marcia Perugia-Assisi e La Nuova Ecologia ha cercato di capire qual è lo stato di salute del pacifismo italiano. Lo ha fatto chiedendolo a 6 persone protagoniste del movimento per la pace, a partire dalle dichiarazioni di Gino Strada.


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Del movimento pacifista italiano ce ne saremmo occupati nel prossimo numero, se non in quello ancora successivo. Con l’avvicinarsi della marcia Perugia Assisi del 7 ottobre, insomma.

La spinta a parlarne ora arriva dal rumore sollevato dalle dichiarazioni di Gino Strada. Nei giorni successivi alla rappresaglia di Usa, Francia e Gran Bretagna contro il regime di Bashar al-Assad per il presunto uso di armi chimiche ai danni dei civili siriani, il fondatore di Emergency è stato intervistato da diverse testate.

Nella trasmissione Circo Massimo su Radio Capital gli è stato chiesto dove fosse il popolo pacifista: “Non si sta mobilitando perché ormai è subentrata la frustrazione, un senso di impotenza, dato che la politica va in un’altra direzione. Si dice che la guerra è brutta finché la fanno gli altri, poi quando la fanno gli amici… Spesso a dirsi pacifista è chi poi i conflitti li fa e li sostiene”. Più diretto sul Corriere della Sera: “Il movimento pacifista è finito dopo che i politici del centrosinistra sono saltati sul carro. Poi sono andati al governo e hanno rifinanziato le missioni di guerra”.

Partendo da queste affermazioni, Nuova Ecologia ha cercato di capire qual è lo stato di salute del pacifismo italiano. E ha cercato di farlo dando voce a sei persone, a diverso titolo protagoniste del movimento per la pace nel nostro Paese: Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace, Sergio Bassoli, coordinatore della Rete della Pace, Carlo Cefaloni, portavoce del Movimento dei focolari, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, Giulio Marcon, scrittore, fondatore della campagna “Sbilanciamoci” e deputato nella scorsa legislatura, Mao Valpiana, presidente del Movimento nonviolento. Ecco le loro risposte alle cinque domande poste da Nuova Ecologia.

Il movimento pacifista italiano è finito come sostiene Gino Strada?

Flavio Lotti. Non amo polemizzare con chi ha dedicato la sua vita a portare soccorso alle vittime delle guerre. Il movimento sta attraversando un grande periodo di difficoltà perché tantissime persone e organizzazioni, che un tempo alimentavano la mobilitazione, hanno cancellato il tema dalla propria agenda. Per quanto riguarda il legame col centrosinistra, non so come Strada possa averlo identificato: io ho visto tante persone impegnarsi per la pace e uomini politici dargli ogni tanto una pacca sulla spalla, senza mai prenderne sul serio le proposte.

Giulio Marcon. Esiste con i suoi progetti di solidarietà, di diplomazia popolare, di sostegno alla società civile. Se di fronte a ciò che accade in Medioriente la reazione popolare è debole non è per ragioni interne al movimento pacifista, il problema è più complesso e riguarda la mobilitazione su tanti temi. Le parole di Strada mi hanno fatto tornare in mente quando nel ‘92, riferendosi alla Bosnia, l’allora direttore dell’Unità, Veltroni, si chiese dove fossero i pacifisti. Gli rispose don Tonino Bello sull’Avvenire, “Noi pacifisti latitanti”, ricordandogli che non si trovano nelle tavole rotonde, nei cortei o in tv ma a portare aiuti, a sostenere le vittime, a rischiare la pelle. A Sarajevo come in Siria.

Sergio Bassoli. Credo sia più interessante interrogarsi su qual è l’idea di pace oggi nella nostra società, se le politiche economiche portano “pace, sicurezza, benessere”. Dobbiamo chiederci se la strada che stiamo percorrendo porta alla pacifica convivenza. La concentrazione della ricchezza in poche mani e la distruzione del pianeta sono minacce alla pace. Discutiamo di questo, non di dove sono finiti i pacifisti. Invito Strada a lavorare con noi, abbiamo bisogno di unire esperienze, risorse, volontà.

Carlo Cefaloni. È evidente che oggi, pur mettendo assieme tutte le sigle possibili, non sia possibile indire una manifestazione di massa neanche per la più giusta delle cause. Le grandi mobilitazioni erano anche specchio della Sinistra tradizionale, resa disincantata dalla sua torsione tecnocratica. La stesso mondo cattolico che si ritrovava nell’alveo ulivista non esiste più, perché distratto da altro. Tuttavia, lontano dai riflettori parte di quel popolo eterogeneo continua a lavorare su questioni ambientali, difesa dei beni comuni, accoglienza dei migranti. Pratiche che esprimono il senso comune del restare umani, che mettono in evidenza una cultura di pace radicata nell’esistenza.

Riccardo Noury. Il movimento pacifista s’è fatto una dormita dal 2003 al 2015, per varie ragioni. Quella che indica Gino (un legame troppo stretto con un centrosinistra che poi non ha fatto seguire i fatti alle parole, ndr) è una e mi convince. Un’altra è che parole come diritti, pace, solidarietà sono diventate minoranza. Hanno preso il sopravvento altre parole come guerra difensiva e minaccia, equazioni scombinate come immigrati uguale terrorismo. Di fronte a questi temi essere minoranza, per di più silenziosa, ha fatto sì che la cultura di pace diventasse sempre meno visibile.

Mao Valpiana. Non abbiamo mai visto Strada come soggetto interno al movimento. In questo senso le sue dichiarazioni lasciano il tempo che trovano. Mi fa arrabbiare il fatto, ma è una debolezza nostra, che i giornalisti considerino sempre e solo lui come portavoce del pacifismo quando non è vero. Non ci sono più le mobilitazioni di una volta perché c’è stata un’evoluzione del movimento. Se qualcuno vuole cercarlo deve andare nei centri studi, da Milex all’Archivio disarmo, dove ci sono iniziative civili di pace e riconciliazione, anche nei luoghi di conflitti, nelle tante reti che si muovono negli ambiti più svariati, dal servizio civile alla ricerca storica.

Nel 2003 per dire “no” alla guerra in Iraq c’è stata una manifestazione oceanica, le bandiere per la pace erano ovunque. Oggi di fronte a ciò che accade in Medioriente si resta colpiti dal silenzio della società civile. Che cosa è successo in questi 15 anni?

Cefaloni. Riferendosi alle manifestazioni contro la guerra in Iraq, il New York Times scrisse che l’opinione pubblica era la “seconda potenza mondiale”: nulla di più falso. Il 2003 ha dimostrato che quella gente non contava nulla di fronte al potere reale. Una presa di posizione coerente avrebbe dovuto indurre a praticare disobbedienza a ogni collaborazione, ma questo passaggio non è stato compiuto. Il fallimento di una generazione che credeva di cambiare il mondo si è trasformato nella disillusione di quella arrivata dopo.

Bassoli. La globalizzazione, che avrebbe dovuto cancellare frontiere e portare prosperità, ha concentrato la ricchezza e costruito poteri fuori dal controllo delle democrazie. Sono aumentate le guerre e la produzione di armamenti, in un circuito “virtuoso” di domanda e offerta che genera altra ricchezza e alleanze. La spesa militare cresce a scapito di quella sociale e della cooperazione, dedicata a ridurre il gap fra Paesi ricchi e poveri. Si è affermato un modello economico che porta con sé violenza, saccheggio, guerre, migrazioni forzate, terrorismo.

Marcon. Un ruolo determinante è stato giocato dalla crisi economica del 2008. La stessa mobilitazione anticapitalista, così forte anche dopo il 2003, basti ricordare i tanti Social forum, è andata via via scemando. In questi anni sono mancate risposte e quel vuoto è stato colmato da sentimenti come la paura e l’insicurezza, che a loro volta hanno spianato la strada ai nazionalismi e ai populismi da cui siamo circondati.

Lotti. Sono successe tante cose, sia nella realtà del mondo che nell’esperienza storica del movimento per la pace italiano e internazionale. Metterei in primo piano le grandi responsabilità della politica, che non ha voluto raccogliere l’impegno che tantissime persone hanno messo in campo in tutto questo tempo per cercare di costruire una politica di pace. Se oggi il movimento appare così debole è anche perché ha incontrato una politica drammaticamente sorda.

Noury. Dopo il 2003, per i conflitti che sono seguiti, non c’è stata una condanna univoca dei crimini commessi. Ha cominciato a prevalere il dividersi in schieramenti. Il silenzio e lo sparpagliarsi sulla Siria ha fatto segnare il punto più basso, anche all’interno del movimento per la pace ha preso piede l’idea che Bashar al-Assad fosse il baluardo di un certo tipo di società laica. Nel frattempo i temi a noi cari sono scomparsi dall’informazione mainstream a favore della retorica della divisione: noi contro loro, prima gli italiani. Si è cominciato una decina di anni fa e piano piano sono cresciute fino a diventare le parole d’ordine dell’ultima campagna elettorale. La bandiera della pace è stata invece messa in un cassetto perché, si diceva, non avrebbe portato consenso.

Polemiche e divisioni fra un pacifismo integralista e un altro più critico e pragmatico, diciamo così, ci sono sempre state. Oggi qual è la questione che più divide la galassia arcobaleno?

Bassoli. A parte qualche personalismo, credo che il punto critico sia la difficoltà di avere un progetto comune e di ricomporre le tante iniziative che realizziamo. Le campagne per il disarmo e quelle per il rispetto della 185, che proibisce la vendita di armi a Paesi che violano i diritti umani e sono parte di conflitti armati, la proposta di legge per la creazione del dipartimento di Difesa civile e nonviolenta, la costituzione dell’Agenzia per i diritti umani, la sperimentazione dei Corpi civili di pace sono esempi di un lavoro continuo che non riusciamo a canalizzare in un alveo comune.

Lotti. Io ho sempre circoscritto il mio impegno nel pacifismo politico ma non per questo mi sento meno rigido nei principi. Sono definizioni caricaturali, utilizzate per richiamare schemi che spesso servono a denigrare il pacifismo. Magari qualcuno ci si ritrova a suo agio, non è il mio caso. Penso siano il frutto di una cultura di cui non abbiamo più bisogno da tempo. Se c’è qualcosa che dobbiamo cercare, non è ciò che divide le diverse culture del pacifismo ma ciò che le unisce.

Cefaloni. Bisognerebbe capire cosa vuol dire essere “pacifisti”, termine che mi sembra adatto alla retorica di chi vuole depotenziare i dissidenti del sistema della guerra in una gabbia ideologica. Esistono diversi percorsi culturali e differenti analisi, che devono trovare il tempo e la voglia di dialogare. Resta poi il fatto che chi decide dall’alto mette in conto che l’opposizione delle persone non dura in eterno e spesso sfocia in dissidi interni. Quando poi si cercano azioni di forza, anche solo dimostrative, si rischia di entrare sul set preferito di tanta informazione, che parla dello scontro e non del problema che l’ha generato.

Marcon. C’è una differenziazione storica fra chi pensa che l’impegno per la pace sia fondamentalmente un impegno contro la guerra e chi pensa che la pace sia una questioni di tutti i giorni. Come ci ha insegnato Alex Langer, c’è un pacifismo ideologico, legato alla protesta, alla mobilitazione, che divide in buoni e cattivi, e ce n’è un altro più concreto, che va a guardare l’essenza delle cose: le vittime sono sempre i buoni, e bisogna stare dalla parte delle vittime.

Se doveste indicare una priorità per il movimento per la pace nel nostro Paese, quale scegliereste?

Valpiana. La diminuzione delle spese militari e lo spostamento di quei fondi sul capitolo “azioni e politiche per la pace”.

Noury. Proseguire la campagna per far cessare l’invio di bombe italiane all’Arabia Saudita, tornando a parlare di riconversione industriale per uscire dalla logica del ricatto occupazionale.

Marcon. Bisogna individuare mobilitazioni di grande impatto sull’opinione pubblica, che siano simbolicamente efficaci, perché la politica ha bisogno di simboli. Quella degli F35, ad esempio, è una questione su cui si può costruire una grande mobilitazione.

Bassoli. Convergere sulla proposta di legge per la creazione del Dipartimento per la difesa civile e nonviolenta e mobilitarsi per la sua approvazione e implementazione, perché da questa istanza si potrebbero sviluppare tanti filoni di lavoro nella scuola, nella cooperazione, nel territorio.

Cefaloni. Partirei dal confronto aperto con “l’economia che uccide”, per usare l’analisi di papa Francesco nella sua integralità, secondo il metodo del “vedere, capire e agire” assieme.

Il 7 ottobre il popolo arcobaleno tornerà a camminare insieme lungo la strada fra Perugia e Assisi. Che marcia sarà?

Bassoli. Come Rete della pace abbiamo elaborato un manifesto e insieme alla Tavola della pace lanciato un appello alla partecipazione. Chiediamo l’impegno per la messa al bando delle armi nucleari, la gestione civile e responsabile dei flussi migratori e in particolare per la sicurezza di chi fugge da guerre e situazioni di repressione e violenza, l’approvazione della legge per la difesa civile e nonviolenta, il taglio alle spese militari e il rispetto della legge 185/90.

Lotti. Non è più il tempo di chiedere pace ma di fare la pace. Bisogna invitare alla marcia persone che non chiedono pace alla politica ma che sono disponibili a farla in prima persona. Abbiamo bisogno di tradurre l’impegno per la pace in azioni concrete e far sì che la Perugia Assisi sia un’occasione di visibilità per tutte quelle energie positive che non devono restare ai margini. Poi viene il tempo dei governi e delle istituzioni internazionali, anche per loro ci sono scelte da compiere e responsabilità da assumere. Ma prima di tutto dobbiamo interrogarci su quello che stiamo facendo noi. Non dobbiamo fare una passeggiata né un’esibizione di forza, visto che anche se fossimo forti saremmo comunque troppo deboli di fronte alle sfide che abbiamo davanti.

Marcon. Parteciperò come sempre, anche se da tempo questa iniziativa non incide più sulla politica. Può essere invece molto utile dal punto di vista educativo, coinvolgendo più ragazzi possibile.

Cefaloni. Il rischio è quello di essere generici, di limitarsi a un evento che si consuma in se stesso come tanti altri nella “società dello spettacolo”. Alcuni obiettivi concreti vanno posti, per esempio l’impegno a fermare l’invio di bombe italiane verso l’Arabia Saudita e la riconversione economica del Sulcis Iglesiente.

Valpiana. Stiamo lavorando a una grande partecipazione per presentare all’opinione pubblica un movimento pacifista e nonviolento ampio e plurale, che non si fa più dettare l’agenda politica dai titoli del telegiornale della sera ma segue una propria strategia, conduce le proprie campagne, costruisce e allarga reti di relazioni, agisce dentro i conflitti reali, pur scontrandosi con l’indifferenza o l’ostilità della politica e la grande difficoltà a trovare interlocutori nelle istituzioni. Questo non significa che non siamo in grado di dare risposte alle minacce di Trump o al conflitto siriano, ma che c’è un’autonomia nel nostro percorso politico. La Siria era già al centro della nostra attenzione quando nessuno ne parlava, tanto meno la grande stampa… Per tornare alla domanda iniziale, più che dove sono i pacifisti, bisognerebbe chiedere a qualche direttore dov’erano i giornalisti fino al giorno prima.

La Nuova Ecologia

5 luglio 2018

 

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