Pace e telebani nei programmi dei candidati


Emanuele Giordana - Lettera22


Negoziato. Riconciliazione nazionale. Perdono. Pace. Nessuna di queste parole è stata dimenticata nella campagna elettorale dai poco più di trenta candidati alle presidenziali.


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Pace e telebani nei programmi dei candidati

Come ignorare del resto la prima vera preoccupazione di ogni afgano e cioè chiudere il capitolo della guerra?

A parte un piccolo gruppo di speculatori che col conflitto fa affari, gli afgani sanno bene che molte delle promesse disattese dipendono anche da una macchina che assorbe la maggior parte delle risorse e delle priorità, la macchina della guerra. Seppur con toni diversi, da Karzai ad Abdullah Abdullah, da Ghani a Ramazan Bashardost (il meno noto dei front-runner ma che i sondaggi danno al 9%), tutti pensano che bisogna negoziare. Come, quando, con chi è un'altra faccenda.
Per Bashardost ad esempio, non sarebbe facile dimenticare cosa i talebani hanno fatto alla minoranza etnica da cui proviene, gli hazara. Dopo averli attaccati ed uccisi, anche per via dello scisma sciita cui aderiscono, i talebani li affamarono chiudendo le strade che portavano gli aiuti alimentari da Ghazni alla valle di Bamyan, roccaforte hazara. E nemmeno Abdullah Abdullah, un personaggio di spicco dell'Alleanza del Nord – la coalizione guidata da Shah Massud che cacciò Omar da Kandahar nel 2001 – sembra l'uomo più adatto a trattare con loro. Nondimeno la riconciliazione coi talebani figura nel suo programma elettorale senza preclusioni e, del resto, la pace non si fa coi nemici? Infine dietro ad Abdullah, che i sondaggi han visto crescere di un paio di punti percentuali sopra il 25%, c'è quel Fronte nazionale dove figurano personaggi come il gran mullah Rabbani, islamista della prima ora e non meno talebano dei talebani quando, da presidente dell'Afghanistan liberato dall'Urss, dichiarò guerra agli artisti, ai musicanti e naturalmente alle donne.
Pragmatico com'è il personaggio, anche l'ex ministro delle Finanze di Karzai Ashraf Ghani, l'intellettuale che vorrebbe farsi presidente, pensa che si debba trattare: il primo passo? Un accordo sul cessate il fuoco. Poi si vedrà.
Ma il vero fautore della riconciliazione, che già dal 2005 ha lanciato i primi appelli ai talebani, resta Hamid Karzai. Con un difetto non da poco. Si è sgolato ma non ha raccolto molto. Qualcosa si è mosso con il suo programma per chi vuole abbandonare la guerriglia, ma sono frattaglie. Né la mediazione saudita, che nel 2008 aveva fatto qualche passo, ha prodotto granché. Si sa che sotto traccia si tratta con Gulbuddin Hekmatyar, un personaggio che ha fatto della guerra e del negoziato con tutti e contro tutti il segno distintivo della sua carriera. Ma Gulbuddin è solo un alleato tattico dei talebani: non li rappresenta. Infine, l'attivissimo fratello di Hamid, Wali Karzai, è uno dei personaggi cui il presidente ha affidato sia le trattative mediate dai sauditi sia il negoziato messo in campo in questi mesi pre elettorali per garantire il voto pashtun nelle aree controllate dai talebani. Ma solo il 20 agosto si capirà quanto questi accordi locali abbiano funzionato.
Inoltre tutti i candidati dovranno tenere in conto cosa ne pensa la comunità internazionale. Non tanto la missione Onu (Unama) retta da Kei Eide – e senza un effettivo peso politico – quanto la Nato, i comandi militari (prima ancora delle cancellerie) e, soprattutto, gli americani. Per Washington il piano è chiaro: si può trattare, anzi si deve. Basta che sia netta la divisione tra talebani e qaedsiti, tra afgani e “stranieri”.
Ma l'ultima parola spetta a mullah Omar, l'emiro mai eletto. Che una piattaforma negoziale l'ha anche proposta con sette punti in agenda. Il primo è il ritiro delle armate occidentali forse sostituibili con una forza di pace di ispirazione islamica. Ma quanto si sia discusso di questo non si sa e certo non è cosa di questi giorni, in cui, per dovere o per forza, è inevitabile che, comunque, gli uomini in turbante alzino il tiro.

Fonte: lettera22.it
19 Agosto 2009

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