Non permettete alla violenza di uccidere il cuore del Libano
AsiaNews
Scontri dopo l’attentato a Beirut. Grande il rischio di una spirale di violenza in tutto il Medio Oriente, ma c’è anche chi parla di preghiera per la Siria e di risposta civile e politica alla violenza.
Beirut (AsiaNews) – Proteste e violenze si registrano a Beirut e in altre città, dopo l’attentato-bomba di Ashrafieh del 19 ottobre che ha ucciso il capo dell’intelligence libanese, gen. Wissam al-Hasan. La notte scorsa vi sono stati scontri a Beirut ovest e nella banlieue sud. Gruppi dell’opposizione hanno manifestato il 20, subito dopo i funerali, chiedendo le dimissioni del premier Najib Mikati, considerato troppo vicino alla Siria, anche perché nel suo governo vi sono membri filo-siriani cristiani e di Hezbollah.
L’opinione più diffusa è che l’attentato ad al-Hasan proviene da mani siriane, anche se i servizi di sicurezza libanesi lasciano aperte tutte le ipotesi (compresa la pista israeliana o salafita, dato che al-Hasan aveva combattuto loro cellule spionistiche).
Ieri gli Stati Uniti si sono offerti a lavorare con il Libano nelle inchieste per scoprire i responsabili dell’attentato. Mikati ha offerto le sue dimissioni, ma il presidente Michel Suleiman non le ha accettate per evitare un vuoto di potere in una situazione così tesa.
Ai funerali di al-Hasan erano presenti la vedova e i due figli. Il generale è stato seppellito nella piazza dei Martiri, affianco a Rafic Hariri, il premier ucciso in un attentato-bomba nel 2005. Un’inchiesta di al-Hasan aveva portato a precise implicazioni di Damasco nell’assassinio.
Nel Paese cresce il rischio che l’uccisione di al-Hasan divida sempre di più le comunità. Il presidente, parlando al funerale del generale ucciso, ha detto che governo e popolo devono lavorare “spalla a spalla” per vincere le sfide createsi con l’assassinio. Anche Saad Hariri, capo dell’opposizione, rifugiatosi all’estero per motivi di sicurezza, ha chiesto ai suoi sostenitori di manifestare, ma senza violenze. Salvare il Libano dalla spirale di violenza che rischia di coinvolgere tutto il Medio Oriente è il compito urgente a cui spinge Fady Noun, grande giornalista libanese, in questa sua analisi.
Fra tutte le reazioni all’attentato di Achrafieh, la più ammirevole è quella di una donna ricoverata nell’ospedale Hotel-Dieu, ripresa dalla Lbc : essa ha affermato che al momento dell’esplosione stava pregando per il popolo siriano e diceva : « Che male ha fatto questo popolo per vivere in una tale desolazione ? ».
Già. Quale errore ha commesso questo popolo che giustifichi sofferenze simili?
Ammirevole è anche quanto ha detto un operaio siriano in un cantiere: “Vedete, noi paghiamo oggi il prezzo di tutta la violenza fatta al Libano”.
In questa doppia generosità del cuore si trova la chiave della pace in Libano – e perché no, anche quella della Siria. Il perdono offerto da questa donna al popolo, i cui dirigenti ci infliggono simili sofferenze, è la chiave per la fine delle violenze in Libano.
Walid Joumblatt l’ha detto a suo modo. È con la politica, l’arte del bene comune e del possibile, un’arte nobile e pragmatica, che dobbiamo rispondere all’attentato di Achrafieh.
“Non cadiamo nel gioco dei mandanti dell’attentato”, ha avvertito Michel Sleiman, che teme una discordia interna. Sono parole sagge che portano qualche luce nella nostra notte. La notte di coloro che alla televisione, ebbri di dolore, dichiarano che le loro sofferenze saranno soddisfatte solo il giorno in cui potranno vedere il cadavere di Bashar el-Assad calpestato dal suo popolo, riconoscibile, ma quasi distrutto, come è avvenuto per Wissam al-Hasan, che i soccorritori hanno riconosciuto solo per l’orologio da polso che egli portava e per un frammento della sua arma.
Non è così che si ferma la violenza. Non è così che Ghassan Tueni ha detto alla sepoltura di suo figlio, assassinato nel 2005. Ghassan Tueni ha detto : “Spegniamo la vendetta. Raccogliamo la volenza ricevuta e impariamo ad augurarci che essa sia l’ultima. Impariamo a non vendicarci; impariamo che la violenza provoca violenza e che nel circolo vizioso e mimetico, possiamo divenire prigionieri della violenza, perpetuandola e finendo per somigliare al nostro avversario, così che più nulla ci distingue dal nostro nemico”.
Fermiamo la violenza dandole una risposta di civiltà. Mi sia permesso di citare qui Michel Eddé che nell’elogio funebre di Ghassan Tueni ha affermato che “le sole rivoluzioni durevoli sonio le rivoluzioni bianche”, che la violenza quale motore del cambiamento storico è un’ideologia perduta.
Nel suo libro “Viaggio dentro la violenza”, Samir Frangié cita René Girard, cercando di mostrare che nella nostra violenza esiste una violenza più atavica, di cui non si viene a capo se non raccogliendola, prendendola su di sé. Sì, l’assassino è in noi e il viaggio al cuore della violenza è un viaggio dentro noi stessi. Come la donna ferita dell’Hotel-Dieu, il cui cuore ha preso il sopravvento sull’ideologia; come Ghassan Tueni; come consigliano alcuni saggi che sono ancora fra noi: riscattiamo questo colpo violento che ci è stato fatto con una condotta piena di civiltà.
Non si tratta di essere ciechi sull’origine dell’attentato o sui suoi autori. Gli assassini sono fra noi, come pure al di là delle nostre frontiere. Ma si tratta di padroneggiare l’arte che spegne la violenza, impedendole di distruggerci interiormente, dopo averci distrutti all’esterno. Conquistiamo la nostra violenza per conquistare in seguito il nostro nemico. Mostriamo al mondo, in modo pacifico, come l’abbiamo fatto tante volte, che il Libano esiste davvero.
Fonte: www.asianews.it
22 ottobre 2012