“Non fu fuoco amico”, parola di La Russa


Emanuele Giordana, Andrea Pira


Marcia indietro sulle parole di Berlusconi. In Afghanistan si resta, senza se e senza ma.


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"Non fu fuoco amico", parola di La Russa

La morte del caporale maggiore Luca Sanna, ucciso martedì in un attacco in Afghanistan ha riacceso il dibattito sul ritiro delle truppe dal Paese asiatico. Questa volta ad aprire la discussione, in attesa che la salma dell'alpino sia riportata oggi in Italia, non è stato un membro dell'opposizione né le associazioni pacifiste. Tutto ruota intorno a una frase di Silvio Berlusconi.

“Di fronte ad un dolore che si ripete troppo spesso, ci chiediamo se serve davvero restare lì per provare a portare la democrazia”, aveva detto il premier poche ore dopo l'attacco, “speriamo davvero di poter attuare una strategia per il ritorno dei nostri soldati”. Parole che hanno avuto risalto durante l'informativa alla Camera del ministro della difesa, Ignazio La Russa, contestato dalle tribune. La ricostruzione sulla morte dell'alpino sardo e sul ferimento del caporale Luca Barisonzi non era molto diversa da quella fornita martedì in conferenza stampa. Con qualche precisazione: l'uomo che ha sparato fingendosi un alleato “non era vestito da soldato afgano, ma era un infiltrato nell'esercito” ed era quindi uno degli otto che prestavano servizio nell'avamposto Highlander assieme ai dieci militari italiani.

Sulle frasi di Berlusconi il ministro è stato perentorio: non ci sarà nessun venir meno agli impegni internazionali presi dall'Italia. È quanto confermato dallo stesso premier oggi destinatario di una lettera firmata dal governatore sardo Ugo Cappellacci (Pdl) che chiede un ridimensionamento della presenza di militare in Afghanistan. Ed è quanto promesso da La Russa in un colloquio telefonico con il generale David Patreaus. D'altronde ha spiegato il ministro non “si tratta di mettere in discussione la bontà delle ragioni che ci portano a proseguire la missione in Afghanistan, ma di rivedere e di adattare al meglio le condizioni e le modalità di impiego dei nostri militari a fronte di mutevoli situazioni di rischio”. Si parla “di maggiori sforzi sul territorio” e di una media di 40 attacchi a settimana negli ultimi 3 mesi.

Ancora una volta il mantra sulla campagna afgana rispetta il copione. Partire? Forse. Restare? Anche. Perché si deve, perché, dice La Russa, ce ne andremo con gli altri. Si, ma quando? Eppoi perché un Paese sovrano non può prendere una decisione sovrana? A quali ordini obbedisce? A quelli di una coalizione da cui più di un Paese si è sfilato, o a quelli impartiti dalla Casa bianca, maestra, soprattutto durante l'Amministrazione Obama, nel dare indicazioni ondivaghe, date “trattabili”, presenze militari che anziché diminuire aumentano?In questa confusione internazionale l'Italia gioca un ruolo defilato, seminascosto e sembra preferire a un dibattito parlamentare forse faticoso ma necessario, un restare senza un limite definito fatte salve le dichiarazioni estemporanee dei due ministri titolari della guerra (Esteri e Difesa) che un giorno dicono una cosa e un giorno un'altra. Proprio in queste ore il decreto missioni che semestralmente rifinanzia le missioni militari all'estero è in discussione in parlamento: ma la discussione, ancora una volta, sembra vertere al più su qualche emendamento parziale senza toccare i problemi veri, e non solo quello del ritiro o meno.

La spesa militare continua ad aumentare mentre quella per la ricostruzione resta al palo. E quella stessa spesa si concentra a Herat, la provincia sotto controllo italiano ma anche la più ricca di un Paese con il tasso di mortalità infantile e delle partorienti tra i più altri del mondo. Un senso potrebbe esserci nel concentrare l'impegno solo nell'Herat se fosse vero quanto promesso da Frattini: e cioè una riconsegna della provincia nel giro di un anno. Ma se Berlusconi l'altro ieri voleva portare tutti a casa, ieri La Russa ha detto che resteremo quanto gli altri. Cioè che di andarsene non se ne parla.

Fonte: Lettera 22

20 gennaio 2011

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