Nemici o alleati? Quando il soldato riempie il vuoto della politica
Emanuele Giordana - Lettera22
Quando il terreno e le scomode verità ribaltano il pensiero corrente. E molti pregiudizi. Riflessioni sulla pace e sulla guerra, i militari, i politici e il loro assordante silenzio.
Il sogno più bizzarro per un pacifista potrebbe esser quello di stare a braccetto con un generale a una marcia per la pace. E per un generale, quello di sognare appesa, accanto alla biancorossoverde, la bandiera multicolore che ancora sventola a qualche balcone.
Incubi? Paradossi? Forse, certo, senz'altro. Eppure, per quanto paradossale possa sembrare, i migliori alleati di chi vuole la pace in Afghanistan sono in questo momento proprio i generali. Non tutti e con accenti diversi. Ma se si mettono in fila le dichiarazioni di diversi comandanti militari ne viene fuori un quadro assai diverso da quello che lo stereotipo dipinge. E del resto c'è un perché. I generali, e i soldati che comandano, sono “sul terreno”. E dal terreno la guerra si vede in modo assai meno sfumato che dai palazzi della politica. Si capisce se può o meno essere vinta, se è combattuta per finta o per davvero e soprattutto se l'opzione militare, quella fin qui sbandierata come l'unica necessaria a stabilizzare l'Afghanistan, funziona oppure no. A quanto sembra, no.
La madre di tutte le dichiarazioni è del britannico Mark Carleton-Smith, combattente tutto d'un pezzo e “guerriero” che è difficile tacciare di disfattismo o scarsa conoscenza del terreno. Intervistato in Afghanistan da Christina Lamb, una giornalista del Times che conosce quei territori come le sue tasche, il generale non se la sente di far finta di nulla e dice la sua verità: spiega che, per come va, la guerra coi talebani non può essere vinta e che l'opinione pubblica britannica si deve aspettare non una “vittoria militare decisiva” ma un possibile dialogo col nemico: un accordo, senti senti, coi talebani. Il comandante della 16ma Air Assault Brigade fa mostra di pragmatismo. E' il 5 di ottobre e forse sta soltanto lavorando allo stesso quadro che proprio in quei giorni, a La Mecca, si dipana faticosamente nel primo incontro semi negoziale tra inviati del mullah Omar e di Karzai. Ma il generale non è solo.
Cinque giorni dopo l'ammiraglio Michael Mullen, a capo dello stato maggiore, dice davanti al Congresso degli Stati Uniti che, per vincere la guerra in Afghanistan (e in Pakistan), non ci si potrà basare solo sulla soluzione "più truppe". Aggiunge che si può essere ottimisti solo a patto che vi sia un maggior impegno nella ricostruzione del paese e in una nuova iniziativa per quel che riguarda la regione tribale del Pakistan. "E' necessario – conclude – lavoro di squadra e cooperazione". Mullen non può essere contrario al mantra che va per la maggiore, da Bush a Obama passando per McCain, e cioè che in Afghanistan ci vogliono più uomini: 3.500 per adesso ma forse 20mila entro il 2009. Eppure mette in guardia sul solo far conto nell'aumento dei soldati. Che non può in sostanza essere l'unica strada.
Com'è noto tutto riposa in un trasferimento della strategia del “surge” dall'Iraq all'Afghanistan, affidata al generale David Petraeus al comando del CentCom, il comando che, dall'Asia centrale al Golfo Persico, con l'occhio lungo ai mari africani, dovrà tentare un'unica strategia per far uscire dalla palude la “guerra al terrore”. Ma anche Petraeus appare cauto. E in effetti ha già i suoi critici: Francis West detto “Bing” ad esempio, un altro militare: veterano del Vietnam che ha servito al ministero della Difesa all'epoca di Reagan, autore di saggi sulla guerra in Iraq, pensa che Petraeus avrà parecchie difficoltà ad adattare all'Afghanistan quanto fatto in Iraq. E così anche il responsabile britannico dello staff di difesa. A un "surge" in Afghanistan il Regno unito, dice Sir Jock Stirrup, non prenderebbe parte
Il 20 di ottobre intanto, anche il generale della Nato John Craddock dice la sua. Gli sforzi occidentali in Afghanistan gli appaiono “disarticolati” e, seppure anche lui, come del resto da sempre la Nato, insista sull'aumento delle truppe, spiega che la “battaglia” con il solo strumento militare non può essere vinta.
Se non ce ne fosse abbastanza, si possono aggiungere le dimissioni del capo delle forze speciali britanniche in Afghanistan che ha lamentato l'abbandono al proprio destino dei suoi ragazzi che continuano a morire: sotto equipaggiati, tanto da obbligarlo moralmente a gettare il cappello. Il maggiore Sebastian Morley non è stata l'unica voce fuori dal coro tra i militari di grado più basso, preceduto almeno da un altro ufficiale tedesco che ha denunciato l'incoerenza dell'operazione afgana pensata Berlino. Sono uomini che sembrano usciti dal bel libro del generale italiano Fabio Mini(“Soldati”) che racconta un esercito reale e non quello fantasioso che piace alla politica e vien buono per la retorica. In un'intervista radiofonica Mini ha spiegato che le uscite di questi soldati colmano un vuoto. E in effetti la cose più interessante, non è tanto il merito specifico delle dichiarazioni – che può essere più o meno condiviso – ma il fatto che i militari stanno sostituendo con le loro parole l'assordante silenzio dei politici. Anche in Italia.
In attesa che i governi impegnati in Afghanistan producano un'idea sul “che fare”, al loro posto parlano i militari. Una novità per chi è uso a “obbedir tacendo” ma che almeno fa chiarezza in un pantano dove si muovono trattative sottobanco che si stenta a capire di quali appoggi godano (quelle della Mecca ad esempio, non è chiaro a chi piacciano realmente, dopo l'avallo ma anche i distinguo del capo del Pentagono Robert Gates, sulla legittimazione di mullah Omar ad esempio).
Finisce così che questi uomini che rischiano la pelle e quella dei loro soldati – buoni dice Mini per essere “vittime o eroi” a seconda dell'esigenza – non vogliano passar da stupidi né da capro espiatorio, visto che vedono bene come sta andando la campagna. Suggeriscono alla politica di dare un segnale pratico e, alcuni fra loro, addirittura che si levi la supremazia all'opzione militare per tornare a darla alla diplomazia e, dunque, alla politica.
Singolare, ma è la stessa cosa che da qualche anno stanno chiedendo quelli che la divisa l'hanno sempre guardata con sospetto.
Emanuele Giordana
18 novembre 2008
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