Negoziare, e prima del ritiro delle truppe


Giuliano Battiston


Intervista a Muttawakil, l’ex taleban moderato che dietro le quinte cerca di dare vita a un processo di riconciliazione L’ex portavoce del mullah Omar: “L’ostacolo sono le precondizioni, nessuno si fida di nessuno, e un solo uomo non basta. Certo non Obama. Il suo Nobel? Non ha cambiato nulla”.


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Negoziare, e prima del ritiro delle truppe

Per parlare con Wakil Ahmed Muttawakil bisogna lasciare il centro di Kabul, dirigersi verso sud-ovest fino al quartiere di Khushal Khan e superare il controllo dei sei uomini armati. Muttawakil è un personaggio di spicco del panorama politico afghano, almeno da quando – molti anni fa – cominciò a lavorare nel settore «informazione e cultura» del movimento dei taleban, per poi diventare portavoce e consigliere personale del mullah Omar e, dalla fine del 1999, ministro degli esteri dell'Emirato islamico dell'Afghanistan. La sua è una prospettiva privilegiata per guardare le complicate vicende afghane, in cui si legano ideologia, religione, politica, interessi economici.
Del movimento degli «studenti di teologia» Muttawakil rivendica la matrice locale e nazionalista. «I taleban – ci dice davanti a una tazza di tè verde – nascono come gruppo radicato localmente, con interessi di natura esclusivamente nazionale. Non hanno mai avuto ambizioni internazionali. Erano solo un gruppo di studenti che voleva portare pace e sviluppo nel proprio paese, genuina espressione del popolo afghano». Sfidando l'evidenza, Muttawakil nega che il Pakistan li abbia sostenuti e armati. Tutt'al più, dice, alcuni stati hanno riconosciuto il potenziale del movimento, cercando di tessere contatti e strategie comuni. «Gli afghani erano stanchi di vedere il paese nel caos, per questo i taleban sono riusciti a conquistare l'Afghanistan».
Gli «studenti» hanno governato fino all'11 settembre 2001, fino agli attacchi alle Torri gemelle di New York e alla successiva invasione militare guidata dagli Usa. Muttawakil nega che nel 2001, come alcuni sostengono, preoccupato delle possibili ripercussioni in Afghanistan, abbia avvertito Washington e l'Onu dell'imminente attacco di al Qaeda: «È una storia che ho cominciato a sentire quand'ero in carcere a Bagram. Ed è falsa». Tiene però a precisare che «non sono stati i taleban a portare in Afghanistan al Qaeda, che aveva la sua base in Sudan ed era arrivata qui prima che i taleban si formassero. È stato Rabbani (leader di Jamiat-e-Islami e presidente afghano dal 1992 al 1996, ndr) a invitare Bin Laden a Jalalabad», sperando di ricevere sostegno contro le truppe di Gulbuddin Hemkatyar. Sulle ragioni per cui quattro mesi dopo l'intervento americano decise di consegnarsi alle autorità locali, Muttawakil preferisce glissare. Ricorda solo che nel carcere di Bagram, dove è rimasto per quasi due anni, ha avuto «un trattamento molto diverso rispetto a quello riservato ai detenuti comuni». Rilasciato nell'ottobre del 2003, da allora ha vissuto sempre a Kabul. Per diversi anni agli arresti domiciliari, il suo nome è stato depennato dalla lista nera del Consiglio di sicurezza dell'Onu solo nel gennaio scorso.
Il problema principale dell'Afghanistan, dice oggi Muttawakil, è «la mancanza di fiducia: tra i diversi gruppi etnici, tra la popolazione e il governo, tra i taleban e la comunità internazionale». Per questo è così difficile cominciare quel processo di riconciliazione di cui Muttawakil è attivo promotore e tessitore dietro le quinte: «La comunità internazionale non si fida dei taleban, convinta che nel caso tornassero al governo la situazione precipiterebbe, mentre i taleban non si fidano di chi ha creato strutture come Guantanamo e Bagram», e chiedono garanzie precise. Ma «le precondizioni sono il vero ostacolo al negoziato. Le parti devono abbandonare la pretesa di poter dettare condizioni, che siano il ritiro delle truppe internazionali o il riconoscimento dell'attuale costituzione, altrimenti il negoziato non partirà mai».
Per avviare un negoziato bisogna ampliare la prospettiva, continua Muttawakil, e attribuire un ruolo maggiore alle Nazioni Unite: «Una persona sola, o un singolo stato, per quanto potente, non riusciranno mai a innescare un negoziato vero, tanto meno a costruire la pace. Serve l'intervento di organizzazioni internazionali come Unama, e dell'aiuto di paesi come la Turchia o gli Emirati Arabi», che possono giocare un ruolo importante. Muttawakil però è scettico: per ora «la comunità internazionale non vuole la pace. Soprattutto non la vogliono gli Stati Uniti», che evitano di coinvolgere nel processo politico proprio quegli attori che potrebbero dare solide garanzie ai taleban. Gli Usa hanno finora negato ai movimenti antigovernativi, oltre alla legittimità politica, la stessa possibilità di passare dall'opposizione armata alla partecipazione nel quadro istituzionale, trattandoli semplicemente come terroristi. Muttawakil obietta: «I taleban combattono per l'indipendenza e per un governo islamico in Afghanistan, e non possono essere definiti terroristi. Sono convinto che se la via della pace fosse davvero praticabile, anche i taleban la preferirebbero». D'altronde, continua, «cos'è terrorismo? Hamas è un gruppo terroristico o lo è Israele? Non sono definite terroriste le truppe internazionali, eppure bombardano e uccidono civili: sono terroriste, o lo sono i taleban che compiono attentati suicidi?»
Gli afghani, secondo l'ex portavoce del mullah Omar, si interrogano sulle reali intenzioni del presidente Obama, che aveva promesso un cambio di rotta: «Non vedo alcun cambiamento reale sul piano pratico», solo su quello retorico, sostiene con sarcasmo Muttawakil, «e mi chiedo come sia stato possibile attribuirgli il Nobel per pace, visto che non riesce a ottenerla né in Iraq né in Afghanistan». Come molti afghani, anche l'ex taleb guarda con estremo scetticismo alle elezioni parlamentari che si terranno il prossimo 19 settembre: «Che si tengano pure, se non ci sono alternative. Ma con la consapevolezza che non saranno certo le elezioni la via d'uscita da questa situazione». Né lo saranno le milizie locali sostenute dal comandante Petraeus e ora appoggiate anche dal Consiglio di sicurezza nazionale afghano: «Non porteranno che guai». L'unica soluzione possibile, ribadisce Muttawakil, è quella di un negoziato che, «per quanto difficile, deve cominciare subito, prima del ritiro delle truppe internazionali». E in cui non si deve escludere a priori nessuna soluzione. Né il ritorno al governo dei rappresentanti della Shura di Quetta, né la riforma dell'attuale quadro politico-istituzionale: «Una volta che sarà assicurata la pace, ci dovranno essere discussioni franche tra tutti i gruppi coinvolti. Esistono infatti modi diversi per garantire prosperità all'Afghanistan, e sistemi di governo diversi per la sua stabilità: la democrazia parlamentare così come il sistema dell'Emirato islamico. Piuttosto che ai metodi, bisogna puntare all'obiettivo, un Afghanistan in pace».
Quanto alle accuse mosse ai servizi segreti pakistani, di collaborare con i taleban afghani, Muttawakil non si sbilancia: «Non ci sono elementi per giudicare la correttezza di queste affermazioni». E dichiara sibillino che «non può essere esclusa» l'ipotesi che l'Iran finanzi o aiuti i gruppi antigovernativi afghani. Precisando subito dopo che che l'Iran «potrebbe giocare un ruolo essenziale nella pacificazione di Iraq e Afghanistan, se non fosse ostracizzato dalla comunità internazionale».

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/
4 Agosto 2010

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