Myanmar. Libertà di espressione?


Daniela Bandelli - unimondo.org


Entro l’anno una nuova legge sulla stampa entrerà in vigore in Myanmar, dove, dal colpo di stato del 1962, l’espressione del pensiero è duramente censurata.


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Myanmar. Libertà di espressione?

Ai giornalisti che lavorano in Myanmar, anziché fare informazione, può capitare di dover andare in giro per edicole e chioschi del paese a ritirare fisicamente i giornali già distribuiti. Succede quando al Governo non piace un articolo sfuggito al controllo preventivo e ordina alle redazioni di far sparire le copie in circolazione. Sebbene la Costituzione del 2008 preveda la libertà di parola, l’informazione stampata e radiotelevisiva ha continuato a subire un pervasivo controllo, tant’è che il Comitato internazionale per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) classifica l’ex Birmania come il secondo paese più censurato al mondo. Inoltre, gli stessi giornalisti si autocensurano, dedicandosi, anziché alle delicate notizie politiche, ad argomenti meno scottanti su calcio, salute e religione.

È il risultato di intimidazioni, violenze, condanne e arresti arbitrari per reati d’opinione, all’ordine del giorno durante i cinquant’anni di dittatura militare, che con le elezioni farsa del 2010, vinte dal partito dei generali al potere fin dal colpo di stato del 1962, si è conclusa solo formalmente. Se vogliono ricevere notizie attendibili, i cittadini del paese, che Reporters without Borders piazza tra i dieci peggiori al mondo in termini di libertà di stampa, devono procurarsi una radio importata illegalmente per sintonizzarsi su una stazione estera o infrangere il divieto di usare antenne satellitari. Internet non rappresenta una reale soluzione a causa dell’insufficiente fornitura di energia elettrica, infrastrutture inadeguate e il continuo tentativo delle autorità di bloccare i siti che contengono parole indesiderate. Secondo i dati dell’ITU, soltanto lo 0,2 percento della popolazione ha accesso al web.

Qualche cambiamento? Nel processo di democratizzazione che il paese sembra aver intrapreso – la Lega Nazionale per la Democrazia, il principale partito d’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi, per la prima volta dal 1990, è stato ammesso alle elezioni legislative parziali dello scorso primo aprile -, qualche spiraglio di miglioramento si è aperto anche sul fronte dei media. A marzo, il Ministro dell’Informazione, insieme all’UNESCO, l’International Media Support e Canale France International, ha organizzato la prima conferenza sullo sviluppo del settore mediatico, alla quale hanno partecipato 180 delegati di ambasciate, agenzie dell’ONU, ong, società civile, paesi donatori, giornalisti e formatori. Inoltre, insieme ai detenuti politici, all’inizio dell’anno sono stati scarcerati anche diversi giornalisti. Altri però si trovano ancora dietro le sbarre. Ai reporter stranieri e alle testate birmane in esilio è stato concesso di entrare nel paese per seguire le consultazioni elettorali, sebbene con l’invito ad attenersi a regole ben precise, come il non potere condurre interviste e scattare fotografie a meno di 500 metri dalle urne. Allentata anche la morsa della censura preventiva, recentemente abolita per un certo numero di pubblicazioni, che continua però a essere applicata sulle riviste di attualità.

Ancora ombre. Tuttavia, queste timide aperture non sono sufficienti per fare del Myanmar un paese in cui si è liberi di parlare ed esprimere il dissenso. Non più tardi dello scorso 8 marzo, la premio Nobel San Suu Kyi ha fatto sapere a Radio Free Asia che le autorità avevano censurato la parte di un suo discorso elettorale per la televisione di stato in cui accusava la precedente giunta di abuso di potere. In più, i giornalisti locali continuano a subire interferenze che in un sistema democratico di stampa libera non sarebbero ammissibili, come per esempio il divieto di riportare le dichiarazioni dei ribelli delle minoranze etniche in occasione degli accordi di tregua con il Governo.

Secondo il CPJ, l’impegno sulla libertà di stampa espresso dal Presidente, l’ex generale Thein Sein, è più retorico che concreto. Così come del resto, secondo l’analisi che Chiara Radini fa per Meridiani, il più vasto “miracolo democratico di fronte al quale la stampa mondiale si sta inchinando con sorprendente naïveté” sarebbe da ricondurre a un’operazione di immagine funzionale al miglioramento delle relazioni con Stati Uniti e Cina.

Novità per i media. Tra le promesse riformiste degli ultimi tempi c’è anche la nuova legge sulla stampa, che dovrebbe entrare in vigore entro l’anno, ma di cui a oggi è dato sapere ben poco. Il Ministero per l’Informazione, con l’assistenza dell’UNESCO, sta lavorando a una seconda bozza, che non è stata resa ancora pubblica. La poca trasparenza del processo preoccupa gli operatori del settore e le organizzazioni impegnate nella promozione della libertà di informazione. Tra queste Articolo 19, che lamenta una scarsa consultazione delle istituzioni con i media e la società civile. «Dal Ministero non abbiamo ricevuto nessuna risposta in merito alla nostra offerta di collaborazione per adeguare il testo agli standard internazionali sui diritti umani» spiega Oliver Spencer, senior advocacy officer dell’organizzazione.

Stando a un comunicato dell’UNESCO, le principali novità della legge sarebbero l’istituzione di comitati indipendenti per la stampa e per i mezzi radiotelevisivi, l’abolizione della censura preventiva, l’aderenza ai principi della libertà di espressione e al diritto all’informazione, e un quadro normativo per i media online.

Sul primo punto, Spencer è dell’avviso che un comitato statale, posto sotto un Governo con una storia di opacità nei processi decisionali ed esclusione delle minoranze, rischia di essere politicizzato, corrotto e lontano dagli standard internazionali. «Per assicurare una distribuzione delle frequenze che rispecchi la diversità e il pluralismo, dovrebbe essere messo in piedi un comitato indipendente di auto-regolamentazione» precisa.

Nonostante l’abolizione del Comitato per la Censura sia senza dubbio un passo in avanti, resta da chiedersi se la stampa potrà finalmente esercitare la sua funzione di cane da guardia del potere. Secondo Spencer, i giornalisti saranno ancora ostacolati da leggi severe e un sistema giudiziario che protegge dalle critiche i militari, i politici e i soggetti economici. «Anche se non si dovrà più chiedere il permesso per andare in stampa, i giornalisti continueranno a rischiare il carcere per decenni, come accade oggi. Ciò che veramente serve è una legge sulla libertà di espressione, limitata esclusivamente dalle eccezioni previste dal diritto internazionale e non dall’abnorme lista di limitazioni oggi in vigore». In altre parole, per mettere fine a una situazione di costante incertezza, che scoraggia i cittadini e gli operatori dell’informazione a esprimersi, il quadro normativo deve essere reso coerente e chiaro, eliminando leggi datate in contraddizione con la libertà di stampa. Di quest’avviso è anche Reporters Without Borders, che richiama, inoltre, l’attenzione sulla necessità di un sindacato indipendente per dare protezione e assistenza legale ai giornalisti.

Tra le leggi da eliminare, un articolo del Codice Penale che vieta di criticare l’operato del Governo, spesso invocato per incarcerare e punire con la pena di morte gli attivisti con l’accusa di “alto tradimento”. Inoltre, quindici anni di detenzione sono previsti per chi trasmette e riceve informazioni senza licenza attraverso radio, fax, telefoni cellulari, modem, videoregistratori e computer. Il divieto di raccogliere, detenere e disseminare “notizie false” che “danneggiano l’interesse nazionale” è usato contro chi passa notizie ai media birmani d’oltreconfine, come per esempio Democratic Voice of Burma DBV, testata multimediale con sede in Norvegia e uffici in Thailandia e India.

Rientrare in patria? Solo dopo che la legge sui media sarà resa pubblica, testate come DBV potranno prendere in considerazione la possibilità di richiedere una licenza e trasmettere da Rangoon. «Per il momento bisogna aspettare – dice il direttore Khin Maung Soe -. Sono sicuro che Aung San Suu Kyi e il suo partito faranno di tutto per spingere le riforme. Ma come? Hanno comunque bisogno del supporto dei gruppi militari che mantengono un quarto dei seggi in Parlamento». In conclusione, è presto per dire in che misura il Myanmar diventerà un paese più democratico e libero.Solo dopo che la legge sui media sarà resa pubblica, testate come DBV potranno prendere in considerazione la possibilità di richiedere una licenza e trasmettere da Rangoon. «Per il momento bisogna aspettare – dice il direttore Khin Maung Soe -. Sono sicuro che Aung San Suu Kyi e il suo partito faranno di tutto per spingere le riforme. Ma come? Hanno comunque bisogno del supporto dei gruppi militari che mantengono un quarto dei seggi in Parlamento». In conclusione, è presto per dire in che misura il Myanmar diventerà un paese più democratico e libero.

Fonte: http://www.unimondo.org
2 Maggio 2012

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