Medio Oriente: la guerra, i terroristi, chi li sostiene
Fulvio Scaglione
L’attacco terroristico al Parlamento di Teheran e al mausoleo di Khomeini è un’ulteriore e inequivocabile dichiarazione di guerra. Una Guerra che è già in corso e che coinvolge tutto il Medio Oriente. Una guerra che fa stragi di innocenti lì e qui.
Pare inutile girarci intorno: l’attacco terroristico al Parlamento di Teheran e al mausoleo di Khomeini è un’ulteriore, inequivocabile dichiarazione di guerra. Una guerra che è già in corso. E se non fosse che nell’era dei social network possiamo illuderci che le parole, anche quelle pesanti, volino via un tanto al chilo, potremmo ritrovare in un paio di tweet la versione odierna dei vecchi dispacci d’ambasciata. Il ministero degli Esteri dell’Arabia Saudita usa le canoniche 140 battute per dire che «l’Iran va punito per il sostegno al terrorismo», quasi una paradossale rivendicazione (e assoluzione per il Daesh). E se non fosse che Donald Trump tende a prendersi il merito di qualunque cosa purché sia clamorosa, dovremmo interpretare i suoi commenti (i Paesi incontrati durante la visita in Arabia Saudita «…hanno detto che avrebbero assunto la linea dura sui finanziamenti al terrorismo, puntando al Qatar. Questo potrebbe essere l’inizio della fine del terrorismo») come la conferma che gli Usa non solo si schierano, ma pure approvano. Le parole di condanna, vaga e formale, dell’attacco in Iran sono infatti venute con freddo comodo.
Questa, però, è la superficie della crisi. È lo spettacolo sconsolante di una serie di buoi che dà del cornuto a una serie di asini. Perché l’Arabia Saudita sostiene il terrorismo del Daesh e di al-Qaeda, il Qatar sostiene quello dei Fratelli Musulmani in Siria e in Egitto, l’Iran ha sostenuto e sostiene quello dell’Hezbollah libanese ed è tornato ad appoggiare quello di Hamas. Appena sotto questo teatrino, però, s’intravvede una realtà assai più drammatica. Siamo arrivati a uno snodo decisivo della rivalità che da tredici secoli oppone la maggioranza sunnita (circa il 90% dei musulmani del Medio Oriente) alla minoranza sciita.
Da quando, nel 680, Hussein, figlio di Alì ch’era stato genero di Maometto, fu ucciso dalle truppe del califfo omayyade, che posero fine alle pretese dinastiche della sua famiglia e trasformarono la shi’at Alì, ovvero la fazione di Alì, in una setta emarginata e spesso perseguitata.
Perché tutto rischia di saltare proprio adesso, dopo tanto tempo? Perché è stata l’epoca contemporanea a riportare gli sciiti al centro della scena. Con l’arrivo al potere della dinastia Assad (alauita-sciita) in Siria nel 1971, con la rivoluzione di Khomeini in Iran nel 1979, con l’avvento del Partito di Dio (Hezbollah, appunto) sciita in Libano, con l’abbattimento del dittatore sunnita Saddam Hussein in Iraq e l’arrivo anche lì di un dominio politico sciita. Una serie di eventi che hanno galvanizzato anche gli sciiti dei Paesi del Golfo Persico, sia dove sono corposa minoranza (in Arabia Saudita, per esempio: 15% circa) sia dove sono larghissima maggioranza sottoposta a un giogo sunnita (come in Bahrain).
Il mondo sunnita del Medio Oriente ha reagito a questo ribaltamento degli antichi equilibri in due modi. Da un lato, ha stretto un patto strategico con i Paesi dell’Occidente, che non esitano a rifornirlo di armi di ogni genere (lo ha fatto l’americano Trump due settimane fa, l’inglese May poco prima, lo fece l’attuale presidente di Francia Emmanuel Macron nel 2015 quand’era ministro dell’Industria e delle Finanze del Governo Valls), chiudendo poi gli occhi sulle conseguenze o addirittura partecipando ai disastri. Perché quell’elenco dei luoghi della riscossa sciita si può facilmente leggere anche come una mappa delle ultime guerre, che sono state l’altro modo scelto dai sunniti per reagire. La Siria ha subito almeno tre tentativi di sovvertimento armato e vediamo bene in che stato è oggi ridotta. L’Iran khomeinista dovette subito affrontare una guerra, poi durata otto anni, con l’Iraq di Saddam, allora armato e appoggiato anche dagli Usa. Il Libano finisce in guerra con devastante regolarità. Le fasce della popolazione sciita nei Paesi del Golfo sono tenute a bada con una repressione feroce e con l’applicazione costante della pena di morte: l’Arabia Saudita mise a morte 47 oppositori sciiti in un solo giorno nel gennaio 2016 e attualmente sono 38 gli attivisti politici, tra i quali anche giovanissimi e minori, detenuti nel braccio della morte.
Se ora si andasse a uno scontro aperto tra i sauditi sostenuti dall’Occidente e un Paese pugnace e pieno di spirito patriottico come l’Iran, con l’immaginabile effetto di trascinamento che tale guerra finirebbe con l’esercitare sui Paesi vicini, potremmo dover prendere in considerazione la fine del Medio Oriente che abbiamo conosciuto finora. Ed è penoso sentir denunciare, ora, il «pericolo wahhabita» dopo che per decenni noi occidentali abbiamo fatto come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano, esaltando ed armando le petromonarchie culla del wahhabismo militante ed esercitando ogni sorta di possibile sanzione contro l’Iran sciita. Mettendo cioè mano in un calderone di cui capivamo poco o niente e rischiando adesso di lasciarci anche le dita. Proprio mentre diventa sempre più chiaro che la guerra, con tutti i suoi terrori e orrori, non è tra ‘noi’ e ‘loro’, ma infesta entrambi i mondi. E lì e qui, come sempre, fa a pezzi prima di tutto gli innocenti.
8 giugno 2017
Avvenire