Tutto il male del mondo!
La redazione
A 6 anni di distanza dalla sua morte, Giulio Regeni non ha ancora visto una vera giustizia e la sua famiglia non ha neppure potuto ancora vedere i volti dei 4 uomini accusati di aver torturato e ucciso il giovane accademico.
La sera del 25 gennaio 2016, a Il Cairo è scomparso Giulio Regeni: 9 giorni dopo il ragazzo, il ricercatore, o più brevemente Giulio, per moltissimi è diventato “il caso Regeni”, o “l’affare Regeni”.
Giulio Regeni, invece, è stato molto più di una questione politica scomoda e complessa, o di un tragico evento divenuto dibattito internazionale. È stato, semplicemente, Giulio.
Giulio Regeni è stato molto poco fermo nei suoi 28 anni di vita: ha perlopiù studiato, ha lavorato molto, si è arricchito di formazione ed ha sviluppato progetti molto ambiziosi che riguardavano se stesso e la voglia di raccontare il mondo.
Tutto questo si è schiantato contro un muro di violenza proprio la sera del 25 gennaio 2016, quando Giulio Regeni venne rapito e fatto svanire nel nulla: non arrivò mai in piazza Tahrir, dove lo aspettavano gli amici per festeggiare insieme un compleanno.
Loro, la sua famiglia e il mondo intero seppero cosa era capitato a Giulio solo il 3 febbraio successivo, quando il suo corpo devastato da immani torture venne lasciato ai bordi di una strada egiziana.
Sei anni dopo, la famiglia di Giulio Regeni non ha ancora potuto guardare negli occhi i torturatori e assassini del figlio.
Il ragazzo di Fiumicello non ha avuto giustizia e il suo cadavere è servito solo a mostrare il Re nudo, ovvero la malvagità e l’omertà di un governo, quello di Al Sisi, che fin dal ritrovamento del corpo ha messo i bastoni tra le ruote affinché non ci fosse vera giustizia.
Cominciamo dalla fine, ovvero da quel corpo buttato senza cura alcuna sul ciglio di una strada. Giulio Regeni era scomparso 9 giorni prima del ritrovamento: i suoi genitori erano subito volati in Egitto e si erano stanziati nel suo appartamento, da dove conducevano ricerche e parlavano con chiunque potesse avere notizie del loro figlio.
Alla tremenda paura che fosse successo qualcosa di molto grave, vi era anche una lieve sicurezza nel fatto che Giulio, in qualche modo, potesse essere salvato. Benché la cruenta del regime di Al Sisi e la frequente sparizione di persone in Egitto fossero cosa nota, “toccare” un ragazzo occidentale voleva dire attirarsi addosso moltissimi guai: per quanto stesse andando male, c’era la speranza che lo avessero magari “solo” incarcerato: l’idea di un omicidio, prima di essere insopportabile, pareva surreale.
Eppure, andò proprio così: Giulio Regeni fu trovato morto e sul suo corpo erano evidenti i segni di una violenza che andava oltre il punto di non ritorno.
Ricordare questi segni non è un modo di accanirsi, ma l’unico modo per comprendere il dramma che si è concretizzato. Giulio Regeni, la sera del 25 febbraio, è stato preso e portato in un posto segreto e il suo decesso è avvenuto 9 giorni dopo: in quel lungo lasso di tempo il ragazzo è stato picchiato, preso a bastonate, preso a pugni, tagliato con un rasoio e forse con un coltello. Tutte le sue dita dei piedi e delle mani sono state rotte, così come le scapole, le gambe e le braccia: le percosse hanno frantumato anche alcuni denti.
Qualcuno ha marchiato il suo corpo ed ha inciso sulla sua pelle delle lettere (metodo di sevizia noto per essere usato dalla milizia di Al Sisi). Infine, dopo 9 giorni di tutto questo, un ultimo pestaggio ha portato alla rottura della vertebra cervicale e ad un’emorragia cerebrale che hanno con ogni probabilità causato la morte. Dopo tutto questo il suo corpo era ridotto talmente male che la madre, Paola Deffendi, ha dichiarato di aver visto sul suo volto “tutto il male del mondo”. Nel corso di quei lunghi giorni Giulio Regeni ha sicuramente cercato di spiegare di non poter dare le risposte che i suoi carcerari cercavano e, ad un certo punto, ha sicuramente capito che non sarebbe potuto uscire vivo da lì: non dopo quello che gli era stato fatto.
Mandare in giro per il mondo un volto che portava su di sé una tale violenza ha portato enormi problemi, che però sarebbero stati ancora maggiori se insieme al volto ci fosse anche una viva voce a raccontare le atrocità subite. L’unica “speranza” era mettere a tacere Giulio Regeni.
Per molto tempo dopo il ritrovamento del corpo, un grande interrogativo fu considerato fondamentale: cosa è successo a Giulio e cosa volevano i suoi aguzzini? Cosa poteva motivare giorni e giorni di tortura?
Le ipotesi tirate in ballo dalle istituzioni e dalle indagini egiziane erano una più fragile dell’altra. Prima venne dichiarato che Giulio era stato vittima di un incidente stradale, poi che poteva essere morto per un movente passionale di tipo omosessuale, infine che Giulio fosse in un brutto giro di spaccio di stupefacenti. Se però Giulio non aveva più voce per raccontare, quel corpo urlava: le ferite e le lesioni, di volta in volta, hanno distrutto ogni tesi della polizia egiziana. Qualcuno aveva prelevato Giulio e lo aveva interrogato per giorni e giorni, per poi decidere di non ascoltarlo più. Nel settembre 2016 la polizia egiziana ammise che Regeni era stato messo sotto sorveglianza della polizia e si cominciò a capire che forse qualcosa nel contesto delle sue attività accademiche poteva aver portato a nutrire sospetti su di lui.
Solo nel 2017 venne individuato il soggetto che aveva fatto il nome di Giulio Regeni alla polizia egiziana. Regeni, in quel momento accademia dell’Università del Cairo e dottorando di Cambridge, era sotto la tutela della professoressa Rabab el Mahdi e stava facendo numerose ricerche sulle proteste dei sindacati degli ambulanti a Il Cairo.
Il capo del sindacato autonomi, Mohammed Abdallah, ebbe un colloquio con Regeni (nel corso del quale lo filmò di nascosto) in cui parlarono di un progetto che metteva a disposizione discrete cifre di denaro per progetti di inclusione sociale. In quell’occasione Abdallah chiese a Giulio dei soldi per questioni personali, ma il ricercatore spiegò di non poterglieli dare. In seguito l’uomo denunciò Giulio, dando il via a quella tesi secondo la quale Regeni sarebbe stato pericoloso ed avesse addirittura l’intenzione di finanziare una rivoluzione. Sarebbe dunque questo il motivo delle coltellate, delle marchiature, delle dita e dei denti rotti: capire se Giulio Regeni fosse un sovversivo ed un pericolo per il regime di Al Sisi.
Per arrivare a 4 nomi ed un rinvio a giudizio ci sono voluto molti anni. Le indagini per la morte di Giulio Regeni, sulla carta, non sarebbe stato così complesse, ma sono state fin dal principio ostacolate dalla polizia e dalle istituzioni egiziane.
Non sono mai stati forniti in forma integrale i video della metropolitana che Giulio prese la sera del sequestro; nel marzo 2016 sono stati uccisi 4 individui, accusati dalla Procura di aver torturato e ucciso Regeni, dicendo di aver trovato i suoi documenti nella loro abitazione, salvo poi spiegare che i 4 non avevano nessun legame con il ricercatore; non sono mai stati concessi interrogatori di giusto approfondimento con indagati e testimoni, spesso ascoltati solo dalla procura egiziana; diverse persone vicine alla causa della famiglia Regeni sono state arrestate a Il Cairo, con presupponibile intento intimidatorio, come l’avvocato Ibrahim Metwaly ed il consulente Amhed Abdullah.
Anche oggi che la procura italiana è stata in grado di rinviare a giudizio 4 ufficiali dei servizi segreti egiziani (il generale Tariq Sabir, il maggiore Magdi Sharif ed i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi), la procura egiziana non ha concesso all’Italia di interrogare i 4, né di conoscere i loro indirizzi e recapiti. Nel corso dell’ultima udienza l’avvocato dei Regeni, Alessandra Ballerini, ed il Gup, hanno chiesto a gran voce che il governo italiano si esponesse e pretendesse chiarezza sui 4 imputati.
Troppe volte, secondo la famiglia Regeni, lo Stato italiano ha nicchiato e non ha preteso con viva forza ciò che avrebbe portato alla verità sulla morte di Giulio, facendo prevalere ragioni di Stato ed i rapporti con un Paese che, di fatto, non ha dimostrato alcuna remora a mentire, sviare e depistare dopo aver commesso crimini tanto atroci nei confronti di un cittadino straniero.
Una delle cose che si sono spesso dette o lasciate intendere sull’affaire Regeni è che il giovane ricercatore si fosse fatto coinvolgere da una questione più grande di lui, e che forse avesse toccato tasti sbagliati e pericolosi. Ciò che invece è vero è che Giulio Regeni stava lavorando da solo: la professoressa di Cambridge Haha Mahfouz Abdel Rahman e la tutor a Il Cairo Rabab El Mahdi sono state accusate, infatti, di non aver tutelato Giulio e di non averlo seguito come avrebbero dovuto nelle sue ricerche in un ambiente delicato e ostile.
Pochi giorni prima del sequestro, su Nena News, con lo pseudonimo Antonio Drius, Giulio scriveva ciò che aveva compreso dei movimenti sindacalisti egiziani: “Gli sviluppi di queste iniziative meritano di essere seguiti con attenzione e vicinanza, anche da questa parte del Mediterraneo. Sono gli stessi sindacalisti egiziani che ce lo chiedono, facendo appello a realtà sociali simili a loro in Italia e in Europa, per sviluppare forme di scambio, solidarietà e cooperazione che possano rafforzarli e incoraggiarli in questa delicata fase storica. Questi esperimenti dal basso potrebbero forse indicare anche a noi nuove traiettorie per un sindacalismo –al contempo combattivo e democratico – al passo con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione del ventunesimo secolo”. Nelle sue parole, il mero intento divulgativo, e non certo un’intenzione insurrezionista.
Al contempo, Giulio Regeni nell’immaginario collettivo è sempre stato un “certo” tipo di vittima: è stato il ragazzo che se n’è andato, di grandi ambizioni, e che nella coltivazione di queste ambizioni ha trovato la morte. Ci si è spesso dimenticati, nel ricordare Giulio Regeni, che era un ragazzo eccezionale ma, soprattutto, era un ragazzo.
Ci si dimentica spesso che Giulio Regeni, il ragazzo che parlava 7 lingue e aveva scelto di non stare in Italia, era amico, figlio, fratello e fidanzato. Era, in sostanza, colmo di quella stessa tenerezza e fragilità che ogni figlio ha agli occhi dei suoi genitori: era il ragazzo che aveva l’abbonamento a Topolino e che quando tornava a Fiumicello si riempiva le valigie di fumetti da leggere, ed era l’amico di tutti che, quando serviva, chiamava la madre per sapere come fare la pasta al sugo se non aveva la passata di pomodoro.
Ora, Giulio è un simbolo internazionale per molti, il movente di una tensione politica internazionale (necessaria e talvolta non bastevole) per alcuni, ma per poche persone è molto di più: è un cassetto di magliette e calzini puliti e mai più toccati, è una cameretta intonsa in cui non dorme più nessuno, è una pila di fumetti impolverati e mai letti in una casa in cui la sua voce non si sentirà più.
Fonte: TheSocialPost
25 gennaio 2021
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