L’Isis rivendica l’ordigno di Kirkuk. E fa strage in Siria.
il Manifesto
Daesh c’è ancora: feriti cinque soldati italiani, uccisi sette civili e un prete a Qamishlo. Il contingente italiano conta in Iraq un massimo di 1.100 unità, dubbi sul ruolo dei reparti speciali. I carabinieri addestrano la polizia, 30mila agenti dal 2015 a oggi «a presidio della legalità». Ovvero i reparti anti-sommossa che stanno reprimendo le proteste popolari
La rivendicazione è arrivata ieri, a poco più di 24 ore dall’esplosione che in Iraq ha ferito cinque soldati italiani: lo Stato Islamico, reduce dalla morte del suo primo «califfo» Abu Bakr al-Baghdad, scrive su Amaq, personale agenzia stampa, di aver «preso di mira un veicolo 4×4 che trasportava membri della coalizione internazionale crociata e dell’antiterrorismo dei peshmerga, nella zona di Qarajai, a nord della zona di Kafri», causando «la distruzione del veicolo e il ferimento di quattro crociati e di quattro apostati».
È l’Isis a dire dove sarebbe accaduto: nel distretto di Kirkuk, città contesa tra il governo centrale di Baghdad e quello regionale del Kurdistan, tra le zone più ricche di petrolio del paese e da decenni teatro di arabizzazione forzata da parte di Saddam prima e de-arabizzazione poi, da parte di Erbil. Oggi è di nuovo in mano a Baghdad. E l’Isis, mai scomparso, si fa rivedere con frequenza.
Come si fa vedere nella vicina Siria dove ieri ha fatto saltare in aria tre kamikaze (morti sei civili) a Qamishlo, capitale del Rojava, e ucciso un prete armeno e suo padre. Erano diretti in auto a Deir Ezzor per la ristrutturazione di una chiesa devastata dall’occupazione di Daesh, lì brutale al pari di quella che ha distrutto il tessuto sociale di Raqqa e Mosul.
Conferma così le denunce dell’Amministrazione autonoma del Rojava che nei giorni scorsi spiegava come dall’inizio dell’operazione turca «Fonte di pace» le cellule dell’Isis abbiano compiuto il 48% di attacchi in più rispetto al periodo precedente.
Intanto fonti dello Stato maggiore italiano fanno sapere che i cinque militari italiani hanno trascorso una notte tranquilla. Non sono in pericolo di vita, scrive Adnkronos, sebbene quattro di loro siano feriti in modo serio: tre hanno subito amputazioni, un quarto ha riportato traumi interni.
Non sono, però, stati presi di mira volontariamente: le stesse fonti parlano di ordigni esplosivi posizionati lungo le vie di comunicazione della zona, dunque non collegabili a «una strategia contro gli italiani». La rivendicazione va letta dunque come l’opportunità, subito colta dall’Isis, di fare facile propaganda in un momento di riassetto dell’organizzazione.
Dubbi invece sulle effettive mansioni dei reparti italiani ne sorgono: quelli coinvolti nell’esplosione sono paracadutisti Col Moschin dell’Esercito e incursori Comsubin della Marina, forze generalmente dispiegate per operazioni speciali e non per il semplice addestramento di peshmerga di Erbil in chiave anti-Isis.
La missione «Prima Parthica» rientra nell’operazione «Inherent Resolve», lanciata dalla coalizione a guida Usa nel 2014 contro l’Isis, all’epoca capace di assumere il controllo di un terzo di Iraq e un terzo di Siria in pochi mesi. L’Italia partecipa con un contingente massimo di militari pari a 1.100 unità (tra esercito, aeronautica e carabinieri), tra Erbil e Baghdad.
Tra loro 136 carabinieri impegnati nell’addestramento della polizia, con all’attivo 30mila agenti iracheni e curdi formati dal 2015 a oggi. Non solo contro lo Stato Islamico, ma – come si legge nel sito della Difesa – «a presidio della legalità e a tutela dei cittadini».
Ovvero, continua il sito, con corsi «Law&Order, Crowd&Riot Control e Cultural Heritage Protection», l’addestramento di reparti anti-sommossa, ben visibili in queste settimane nella capitale irachena e nel sud del paese perché impegnati nella brutale repressione delle proteste popolari scoppiate il primo ottobre scorso.
Dal momento dell’esplosione contro il convoglio italiano i media italiani spiegano come simili attacchi siano maggiormente probabili per la minore presenza delle forze di polizia irachene, concentrate a fermare le proteste. Il modo in cui le fermano (o almeno ci provano, per ora senza successo) è sparando proiettili sulla folla e usando i candelotti lacrimogeni per colpire le teste dei manifestanti, uccidendone decine.
Il sito della Difesa aggiunge che con gli ultimi corsi sono stati «addestrati 432 iracheni appartenenti alle diverse forze di polizia», «una formazione specifica nelle procedure di intervento di polizia (controllo del territorio, uso calibrato della forza secondo un’escalation di proporzionalità alla minaccia, tecnica di arresto e di ammanettamento e uso delle armi non letali)».
Eppure, quello che si vede in queste settimane è violenza di Stato contro dei civili: 319 uccisi, migliaia di feriti, arrestati e desaparecidos. Gli ultimi quattro morti domenica: «Non è altro che un bagno di sangue», ha detto ieri Amnesty International.
I leader politici iracheni, nel mirino dei manifestanti, due giorni fa si sono visti e accordati per una riforma elettorale che permetta la partecipazione dei giovani dai 25 anni: il premier Abdul-Madhi, il presidente Salih e lo speaker del parlamento Halboulsi hanno annunciato l’avvio di una discussione intorno alla costituzione e alla riforma elettorale, implicito riconoscimento della legittimità delle proteste.
Quei giovani chiedono però di più della chance di una candidatura: vogliono rivoluzionare il loro paese, abbattere il sistema settario che lo governa e la redistribuzione delle sue ricchezze. E continuano a manifestare: ieri hanno bloccato le strade che conducono al valico di Al-Shayib con l’Iran a Maysan, una delle zone più ricche di petrolio dell’Iraq.
Chiara Cruciati
Il Manifesto
12 novembre 2019