Libia: i silenzi colpevoli di Italia e Usa
Marilisa Palumbo
Intervista telefonica a Najla Abdurrahman di “Enough Gaddafi”. Ventotto anni, è nata e cresciuta in America, ma ha sempre tenuto stretto il filo che la lega alla Libia, il paese dei suoi genitori.
«Sono, siamo tutti estremamente delusi dal comportamento della comunità internazionale. Soprattutto dall’Italia e dagli Stati Uniti». Najla Abdurrahman ha ventotto anni, è nata e cresciuta in America, ma ha sempre tenuto stretto il filo che la lega alla Libia, il paese dei suoi genitori. Una laurea alla Washington University e un dottorato (in corso) al dipartimento di Middle Eastern, South Asian and African Studies alla Columbia University di New York, Najla lavora con un gruppo di esuli di seconda generazione, figli di dissidenti politici. «Non siamo una organizzazione ufficiale, solo un piccolo gruppo chiamato “Enough Gaddafi” – ci racconta al telefono da Washington –. Quasi due anni fa, molto prima che nessuno potesse anche solo sognare quello che è successo in Egitto e Tunisia, abbiamo aperto un sito per dare notizie sulla Libia. Perché nessuno ne parlava, nessuno sapeva cosa stesse accadendo ». Poi sono arrivati i giorni di Tunisi, e del Cairo. «Eravamo tutti molto eccitati e così, dopo che dalla Libia è arrivata notizia delle proteste programmate per il 17 febbraio, abbiamo pensato che avrebbero avuto bisogno di aiuto. Dato che in Libia non ci sono giornalisti stranieri, abbiamo cercato di diffondere la notizia sui media occidentali ed esteso il nostro network di contatti in Libia.
Contemporaneamente abbiamo cominciato ad aprire account su Twitter e a scrivere alle tv e ai giornali, insomma a prepararci per quello che sarebbe successo. Quando sono cominciati i disordini, già il 15 febbraio, siamo stati colti di sorpresa.
Avevamo ancora dei dubbi sul fatto che le proteste potessero prendere piede. E ci preoccupava che la reazione violenta del regime ricevesse così poca attenzione sui media occidentali».
E così hai scritto un pezzo per il sito della rivista Foreign policy intitolato “Che succede se i libici inscenano una rivoluzione e non arriva nessuno”.
Sì, ma abbiamo fatto tante altre cose. Siamo un gruppo di ragazzi ventenni con un computer, decisi a tenere alta l’attenzione su quello che sta accadendo. Il nostro sito è stato vittima di hackeraggio una settimana fa, e così in tutta fretta ne abbiamo messi su altri due. Uno è feb17.info, l’altro è libyafeb17.com Sono pieni di video, messaggi, foto, ricevuti dai cellulari oppure dagli account Facebook dei nostri amici in Libia. Chiamiamo i nostri contatti in Libia e chiediamo loro di raccontare quello che vedono e quello che sanno. Li registriamo e li mettiamo nella parte audio del sito. Alcune testimonianze sono state riprese anche dalle tv.
S i amo attivissimi su Twitter, dove abbiamo centinaia di followers.
Cerchiamo di procurare più informazioni possibili ai media, che non possono andare lì e procurarsele da soli, e li correggiamo quando sbagliano nel riportare le notizie. Lo abbiamo fatto con al Jazeera, con l’Associated Press…
La rete è usata anche in Libia per organizzare le proteste?
Meno che in Egitto. La gente ha saputo delle manifestazioni del 17 febbraio soprattutto dal passaparola. Le proteste non erano veramente organizzate, sono cresciute quando si è visto che la gente partecipava, e si sono propagate dall’est, dove era più facile che attecchissero, fino a Tripoli.
Sei ottimista, pensi che il regime di Gheddafi sia finito?
È difficile dirlo. Bengasi per adesso è sotto il controllo dei rivoltosi, ma a Tripoli la situazione è molto più complicata. E ci sono ancora zone del paese e della stessa capitale per niente investite dai disordini. Detto questo, molti di noi pensano che negli ultimi due giorni si sia raggiunto un punto di non ritorno, ma purtroppo non possiamo gioire come vorremmo.
Sono orgogliosa dei giovani libici. I miei parenti mi raccontano che quando le forze di sicurezza sparano ai ragazzi che protestano questi si disperdono e poi tornano subito dopo a riunirsi. Ma quello che sta accedendo nel paese è devastante. Ci sono centinaia di morti. Un altro mio familiare, accorso in ospedale perché suo fratello è stato ferito, ha contato almeno settanta morti e ha visto le forze di sicurezza che intimidivano i medici.
Un dottore con cui abbiamo parlato ci ha raccontato che i militari annotano i nomi delle vittime, suppongo per infierire sulle loro famiglie. O che prendono il sangue dalle banche del sangue e lo versano per renderlo inutilizzabile.
Cosa può, cosa dovrebbe fare la comunità internazionale secondo voi?
Una settimana fa avrei detto che doveva limitarsi a una forte condanna e a chiedere a Gheddafi di lasciare. Penso ancora che dovrebbero farlo, perché sinora sono stati troppo deboli. Siamo estremamente delusi, soprattutto dagli italiani e dagli americani.
Ma avete visto le dichiarazioni deliranti di Gheddafi? Mi è sembrato incredibilmente disperato e folle, ma è un folle con una potenza di fuoco. Come possono pensare, i leader occidentali, di averci a che fare come fosse un capo di stato qualsiasi? Bisogna costringerlo a fare un passo indietro.
E se non se ne va, allora purtroppo bisogna intervenire. Nessuno vorrebbe vedere forze straniere nel proprio paese, ma qui stanno morendo centinaia di persone. Ma c’è un’altra cosa…
Cosa?
Noi non vogliamo che la gente dica: «Ecco, Gheddafi e il figlio avevano ragione, senza di loro è il caos, è la guerra civile». Sono loro, è il regime che destabilizza il paese e che ha condotto a questo bagno di sangue. Non il contrario.
È vero però che la Libia è diversa da Tunisia ed Egitto, che ci sono delle divisioni tra le aree del paese e tra le tribù.
Sì, ma nessuno vuole una Libia divisa. Nei giorni scorsi Radio Bengasi era inondata di chiamate da tutto il paese che incoraggiavano i manifestanti. E sì, ci sono strutture tribali, ma non sono altro che interessi in conflitto, che esistono dappertutto, in ogni paese. Non sono certo una scusa per tenersi una dittatura, come non lo è il fatto che il dopo sarà molto difficile, e che potrebbe esserci un vuoto di potere. Washington e Roma non vogliono sentire queste cose perché pensano ai loro interessi geopolitici, ma le aspirazioni del popolo libico sono più importanti.
Anche il rischio di una sorta di rivoluzione islamica è inventato?
Certo! I libici non sono radicali. Anche il gruppo islamico che Gheddafi ha soppresso negli Novanta non era affatto un gruppo veramente radicale. I media fanno un’enorme confusione. Era un gruppo di opposizione.
Ed era islamico. E allora? Non era certo al Qaeda.
Da libica americana ti senti delusa da Obama?
Moltissimo. Quando Obama andò al Cairo a fare lezione di democrazia disse che che tutti i popoli hanno diritto a lottare per le proprie aspirazioni, per la libertà, per la dignità, per l’istruzione. E disse anche: «Non abbiamo bisogno di parole, servono azioni coraggiose». E poi? Tutto quello che ha fatto ha contraddetto quelle parole. Capisco che sono politici e diplomatici, e devono essere pragmatici, ma c’è un limite alla cautela.
Fonte: www.articolo21.org
24 febbraio 2011