Liberiamoci…


Emanuele Giordana - Lettera22


In tempi di penitenza forse è l’ora di pensare a come smettere di far penitenza: non abbiamo bisogno di un nuovo ordine mondiale ma di un po’ di ordine nelle nostre strategie forse si. Per libererci dalla guerra.


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Liberiamoci...

Un ambientalista è per forza un pacifista? Non sempre e non per forza, come il dibattito sull'intervento in Libia ha dimostrato e come dimostra l'interrogativo che, dall'ingerenza umanitaria in avanti, caratterizza un modo di interrogarsi che va oltre schemi e ideologie. Pur se, per forza di cose, non si può eludere il rapporto che la guerra ha, oltre la distruzione degli esseri umani, con le offese e le ferite che porta al territorio, agli animali che lo popolano, alle specie vegetali che lo ricoprono. Basterebbero le immagini del napalm, in un certo senso, a marcare una linea netta tra chi ama la Terra e chi pensa che sia solo un luogo su cui fare esercizi muscolari.

Ma se un ambientalista è abbastanza pragmatico e abbastanza deideologizzato da porsi comunque una serie di domande (come posso difendere un mio simile) c'è qualcosa su cui forse è legittimo interrogarsi a priori. Non è vero infatti che sulla guerra finiamo sempre per esprimerci (e condannarla) una volta che è scoppiata? Se a Pasqua, come a Natale, si fanno buoni propositi, non sarà il caso, questa volta, di chiederci cosa si può fare prima che la guerra, ultima e pessima ratio, diventi lo strumento principale per tentare (spesso fallacemente) di risolvere un problema?
Il dibattito sul conflitto in Libia ha messo in luce due elementi: il primo è che, per la prima volta, la comunità internazionale ha messo nero su bianco in una risoluzione largamente condivisa il concetto di protezione dei civili. Giusto, sacrosanto, indubitabile passo avanti. Ma il secondo elemento è che, per proteggere, abbiamo utilizzato strumenti che si stanno rivelando, come già in passato, pericolosi e per nulla risolutivi. Le bombe non scacciano le bombe: le chiamano. E un 'organizzazione regionale (la Nato) non può assumersi l'incarico a nome degli oltre 180 Paesi che compongono il mondo. Abbiamo bisogno di strumenti nuovi. E sarebbe ora che ci pensassimo prima. Perché, dopo la Libia, potrebbe esserci lo Yemen, il Bahrein o, nuovamente, il Sudan.

Il vecchio mondo che partorì l'Onu ha bisogno di nuovi strumenti e di nuove levatrici. Di una revisione profonda di quell'organizzazione mondiale imperfetta che venne stabilità con un diritto perenne ai vincitori del secondo conflitto mondiale: il diritto di veto. Incapace di una riforma reale, l'Onu ha continuato ad avallare l'idea che nel mondo cinque Paesi valgano più degli altri. Una regola che non funzione più. Vale ormai talmente poco che nuove alleanze regionali si fanno avanti: il Bric, ad esempio, simbolo del desiderio dei Paesi emergenti (India, Cina, Brasile) di contare di più. Dobbiamo vederlo come un pericolo (noi occidentali) o come un'opportunità?

Se c'è bisogno di un nuovo organismo mondiale (non di un nuovo ordine) e di una riforma profonda delle Nazioni unite, c'è bisogno che l'Onu abbia un esercito: un'idea abbozzata dopo il secondo conflitto mondiale e lasciata morire. E se questo esercito ci fosse, legittimato dunque da un ampio consesso di Stati, si dovrebbe stabilire come, quando e perché debba agire. Nuove clausole, regole di ingaggio, catena di comando ampiamente condivise. Utopia? A furia di pensare che lo sia nessuno ci ha più messo mano.

Ma gli Stati da soli non bastano. Negli ultimi sessant'anni la popolazione mondiale non è solo cresciuta nei numeri. L'istruzione e la sanità hanno fatto passi da gigante. Si vive di più e, soprattutto, si è più consapevoli: dei propri diritti e dei propri doveri, non esclusi quelli che abbiamo verso il pianeta, le sue specie viventi e inerti, il suo equilibrio. Questa consapevolezza è in realtà una forza montante: lo dimostrano le primavere arabe e anche la disaffezione dei Paesi avanzati per la politica. Paradosso? No, quest'ultima non è un rifiuto qualunquista ma la consapevolezza che le nostre democrazie rappresentative sono malate. Rappresentano per delega ma senza che il cittadino, la società civile, esercitino un controllo reale. E' la distanza tra i Palazzi e i cittadini il gap apparentemente incolmabile che ci allontana del voto. Non siamo più qualunquisti: siamo più consapevoli. Con la differenza che la consapevolezza, quando non ha strumenti per agire, diventa qualunquismo e riflessione narcisistica: penso al mio particulare visto che nulla posso per il bene comune.

Se le democrazie sono malate, quella italiana è alla stadio terminale. Il nostro Paese attraversa una depressione non solo economica ma psicologica: voglia di evadere, di andare altrove, di approfittarne – anch'io come tutti – quando ci riesco. Un destino che sembra senza via d'uscita.
Se si può elevare un pensierino pasquale in giorni che si vorrebbero di penitenza, vien da pensare che i giorni della penitenza debbano finire. E che, se al peggio non c'è mai limite, si può tornare a pensare che nemmeno il meglio ha una frontiera definita. Se gli strumenti della nostra partecipazione civile si sono usurati, se continuiamo a risolvere i nodi moderni con le tecniche del secolo scorso, se è evidente che non è con questi attrezzi che si esce dal vicolo cieco, bisogna ribaltare il mondo e ricominciare a pensarci. Cambiarlo è possibile. "Solo chi è così folle da credere di poter cambiare il mondo, lo cambia davvero", diceva il vecchio Gandhi quando si inventò lo strumento della “non collaborazione”. Alla fine mandò a casa Sua Maestà.

Fonte: Lettera22

26 aprile 2011

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