Libano, dopo le bombe la ricostruzione parte dai giovani


Redattore Sociale


Il progetto "Art Gold" dell’Undp fornisce ai ragazzi rimasti nei villaggi le apparecchiature per i centri giovanili. "Puliamo le strade, piantiamo gli alberi, organizziamo festival". Decisivo il contributo di enti locali del nord Italia.


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Libano, dopo le bombe la ricostruzione parte dai giovani

Tiro (Libano) – Si sono fatti carico di ricostruire quello che le bombe gli avevano portato via. Apparentemente strutture di mattoni e cemento che ospitavano  centri di incontro per i giovani. Molto di più, in realtà. La possibilità di avere voce in capitolo, di essere una comunità, di esprimersi, la speranza per il futuro. Il domani del Libano si vede nello sguardo di Wissam, Mohammad, Hassan, Diana e Lamis. Hanno dai 20 ai 26 anni. Studiano o lavorano. Vivono nei villaggi del sud, a pochi chilometri dal confine con Israele, dalla Linea Blu che divide l’esercito delle Lebanese Armed Forces e i caschi blu dell’Onu dalle postazioni militari  israeliane. Le loro famiglie hanno conosciuto la guerra e i massacri confessionali come la normalità e la pace come l’eccezione. “Io sono libanese”, rispondono alla domanda sulla fede di appartenenza, dopo avere dichiarato di credere in Dio o in Allah. La loro battaglia è diversa. Da sei anni lottano solo per potersi incontrare. Per avere uno spazio e delle attività con gli altri giovani rimasti nei paesi, con quelli che non sono emigrati alla ricerca di un mondo diverso. Fanno parte di un progetto dell’Undp partito nel 2000. Nel 2006 la guerra ha bloccato l’Onu. Ma non è riuscita a fermare questi giovani che hanno continuato a incontrarsi anche senza le Nazioni Unite.

In seguito, il programma “Art Gold”, che ha lo scopo di costruire partnership tra le comunità locali, ha ripreso in mano la situazione, ritrovando spesso le stesse persone “allevate” anni prima. È il caso di Lamis Hijari, 20 anni, di Dibbine. Ha cominciato a 11 anni, ora dice che il cambiamento in lei è notevole. Prima era molto timida, oggi è la responsabile del suo gruppo. È la più decisa. Questo traspare dal sorriso aperto e dai grandi occhi chiari messi in risalto dal velo. “Il centro giovanile ce l’ha distrutto la guerra, ancora aspettiamo che il governo ce lo ricostruisca”, racconta. “I nostri problemi sono due: il lavoro e il fatto di essere pochi. Prima del conflitto nel gruppo c’erano 30 persone. Dopo siamo rimasti in dieci”. In tanti sono scappati dal villaggio, raso al suolo all’80%. “Puliamo le strade del villaggio, piantiamo gli alberi, facciamo i campi estivi per i più piccoli, organizziamo festival e celebrazioni, prepariamo fiori per la festa della mamma”. È lo scrupoloso elenco di attività snocciolato all’istante. Wissam Abed Alhay, del villaggio druso di Ayn Jarfa, ventenne e futuro ingegnere, ci tiene a dire che nel suo “Giving Youth Group” si fanno anche le tessere. Ha preparato una scheda al computer delle strutture a disposizione del centro: sala pc, una libreria, vari corsi. “Gli altri abitanti si fidano di noi perché sanno che lavoriamo per il villaggio e per rimettere in sesto il centro”, dice.

Anche i tre giovani di Tibnine, Mohammed Tawaz, Hassan Khoroual e Diana Berri hanno tanta voglia di fare. “Organizziamo attività estive di uno o due giorni per i bambini, i giovani e le donne e corsi di lingue come inglese e francese”. Il loro centro “Al ghad” (il buon futuro) non aveva più una sede, portata via dai caccia israeliani. Con la mediazione di Artgold hanno ottenuto di poter usare una volta al mese un piccolo appartamento di tre stanze su concessione del sindaco. Il loro obiettivo è di essere registrati ufficialmente. Come ente riconosciuto dal governo potrebbero fare progetti con le ong. E magari passare da un’attività volontaria a un vero e proprio lavoro per la comunità. A Tibnine c’è il quartier generale italiano che comanda tutto il settore Ovest del sud del Libano, su cui sono dispiegati 4 mila uomini e donne delle forze multinazionali, di cui oltre 2 mila soldati italiani. I ragazzi vogliono chiedere anche l’aiuto del contingente italiano di Unifil. Sognano corsi di lingua tenuti da insegnanti italiani e un campetto di calcio in paese. Per qualcuno di loro un’ambizione più grande è poter lavorare per l’Onu.

“Il valore aggiunto sta nel rapporto che si crea tra le comunità locali”, dice a chiare lettere Lucia Maddoli, responsabile Art Gold nell’area. Art Gold si occupa di recepire i bisogni che emergono dalle comunità a cui si rivolge e cercare poi altre comunità che finanzino e supportino le iniziative. In questo caso, il sostegno viene dalla rete nazionale degli Enti locali per la Pace (Cnelp) e dalla sua componente regionale del Friuli, il Crelp. Con il finanziamento delle provincie di Gorizia, Venezia, Milano Trieste e Riccione, si sta dando vita a un progetto cinematografico. Nove ragazzi libanesi sono stati a Gorizia per un workshop interculturale sulla costruzione di un cammino di pace. Il risultato della riflessione comune è uno “short movie” dal titolo “Pic –Nic” sulle mine e le bombe nei conflitti in generale, anche se l’idea è partita dalla situazione libanese. A breve, sarà girato anche un documentario come backstage del video, e le riprese saranno nei loro villaggi. In attesa di rivedersi su un grande schermo nell’inquadratura di una videocamera, Lamis saluta con due parole: “I hope”.

Fonte: Redattore Sociale

di Raffaella Cosentino

luglio 2009

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