La scintilla del Bahrein
Emanuele Giordana - Lettera22
L’intervento delle truppe saudite a fianco della dinastia degli Al-Khalifa non ferma gli scontri e le proteste, ma rischia di innescare una pericolosa escalation.
Il Bahrein è uno stato minuscolo: poco meno di un milione e mezzo di abitanti, solo per il 60 per cento cittadini a tutti gli effetti, per una superficie che è meno di un terzo di quella della Val d’Aosta. Eppure, questo arcipelago poggiato sui giacimenti di petrolio e sulle acque del Golfo persico, rischia di innescare una scintilla colossale. Da quando sono iniziate, ormai più di un mese fa, le proteste contro la dinastia regnante degli Al-Khalifa, la tensione nel paese è andata crescendo. Fino alla dichiarazione dello stato d’emergenza, in vigore da martedì 15 marzo. Il giorno prima, truppe saudite, kuwaitiane e degli Emirati Arabi Uniti sono entrate nel paese, attraverso l’autostrada che connette l’isola principale dell’arcipelago con la penisola arabica.
Nonostante lo stato d'emergenza, ci sono state ancora proteste. Due persone sono morte negli scontri tra manifestanti e polizia nel quartiere sciita di Sitra, alla periferia della capitale Manama e diverse decine di feriti hanno affollato gli ospedali.
Quello entrato in Bahrein non è un piccolo contingente di polizia, come potrebbe sembrare da alcuni resoconti. L’Arabia Saudita, su mandato del Consiglio di Cooperazione del Golfo [GCC] – l’organismo multilaterale che riunisce i paesi arabi rivieraschi – hanno mandato circa 3500 soldati: una brigata della Guardia Nazionale saudita, una brigata meccanizzata e un battaglione di carri armati. A queste forze si aggiungono circa 500 poliziotti mandati dagli Emirati Arabi, mentre il Qatar ha annunciato che potrebbe spedire un ulteriore rinforzo. Compito principale del contingente, proteggere le infrastrutture petrolifere e il centro finanziario di Manama, la capitale del Bahrein e uno dei crocevia della finanza araba e non solo. Compito secondario, puntellare la dinastia degli Al-Khalifa, al potere dal 1822, quando il piccolo stato riuscì a staccarsi dalla tutela del sultano dell’Oman grazie a un trattato con la Gran Bretagna: la Royal Navy avrebbe garantito la protezione dell’arcipelago, che in cambio avrebbe rinunciato alla pirateria e offerto un ottimo approdo sulla via marittima verso l’India. Fino al 1783, il Bahrein era stato un avamposto dei domini della Persia ricevendone in eredità l’islam sciita, seguito dalla maggior parte della popolazione. La dinastia regnante, invece, è sunnita. La protezione del piccolo stato è passata di mano e oggi, oltre ai sauditi, ci sono le basi della U.S. Navy a presidiare le rotte commerciali più importanti per il flusso mondiale di petrolio.
Il movimento di protesta ha fin dall’inizio negato che la causa della rivolta fosse la divisione religiosa tra sciiti e sunniti. Si è presentato e ha agito come un movimento civico, impegnato a rivendicare per il Bahrein le riforme e le aperture democratiche che sono state chieste in Egitto e in Tunisia. Le cose, però, non stanno più così. Negli ultimi giorni, il clima è cambiato. Pochi giorni fa, il Consiglio di Cooperazione del Golfo, in una riunione congiunta, ha emesso un comunicato in cui si annunciava che i governi dei paesi membri si sarebbero impegnati per evitare la destabilizzazione e le proteste. L’Arabia Saudita ha dato il “buon” esempio, vietando le manifestazioni. Nonostante gli appelli del presidente statunitense Barack Obama, che ha invitato tanto i sauditi quanto gli Al-Khalifa a evitare di reprimere le manifestazioni di protesta. Così, mentre Onu, Unione Europea e Usa si interrogano se sia il caso o meno di intervenire in qualche modo in Libia, il governo saudita e quelli degli altri paesi del GCC hanno rapidamente deciso di farlo. Per la prima volta da quando è esplosa la primavera araba, dunque, un esercito straniero – ancorché arabo – interviene in uno dei paesi rianimati dalle proteste. Non è un fatto di poco conto. Per almeno tre motivi. Primo, segna inequivocabilmente il fatto che il più importante (economicamente parlando) stato arabo, l’Arabia Saudita, è pronto a rischiare l’escalation militare pur di contenere gli effetti di questa inaspettata primavera. Secondo, questo e altri possibili interventi (Yemen?), avvengono esattamente contro le indicazioni provenienti dagli “alleati” occidentali. Segno evidente che nemmeno i sauditi si sentono più così sicuri del fatto che, ove mai esplodesse un movimento di protesta nel regno, gli Stati Uniti si muoverebbero per proteggere la petrodinastia. Il modo in cui è stato scaricato Mubarak ha alimentato la diffidenza. Terzo, data la linea di faglia religiosa del Bahrein, le scosse potrebbero essere molto profonde.
L’Arabia Saudita, infatti, custode dell’ortodossia sunnita nella versione wahabita, ha un suo problema interno di minoranza sciita, concentrata nelle regioni dell’est del paese, lungo la costa del Golfo e, sommo problema, in alcune delle più ricche regioni petrolifere. Difendere il primato sunnita in Bahrein, dunque, serve anche a mandare un messaggio alla propria minoranza sciita, da sempre insofferente del dominio sunnita nell’unico stato al mondo con il cognome di una famiglia. Dire sciiti e dire Golfo, però, vuol dire evocare l’Iran. Nulla è automatico, naturalmente, anche perché gli arabi sciiti sono, prima di tutto, arabi – come dimostra l’Iraq – e la rivalità storica con i persiani conta spesso più della “comunanza” religiosa. Tuttavia, se la repressione, in Bahrein o nella stessa Arabia Saudita, raggiungesse livelli libici, difficilmente l’Iran potrebbe rimanere in silenzio.
Finora, Teheran si è limitata a condannare “l’intervento esterno” in quelle che, secondo il governo della Repubblica islamica, rimangono “questioni interne”.
La prospettiva che si aprirebbe nel caso la rivalità tra sauditi e iraniani raggiungesse il punto di rottura è talmente vertiginosa che conviene ritrarsi. Senza però smettere di tenere d’occhio tanto il piccolo Regno dei due mari (mamlakat al-Bahrayn) quanto l’altro estremo del Medio Oriente, il Libano ancora apparentemente poco scosso dal vento di primavera.
Proteste e scontri in Bahrein su Al Jazeera
Fonte: Lettera22
15 marzo 2011