La povertà è donna e vive in Africa


Manitese


Le donne costituiscono il 70% di quel miliardo e più di esseri umani che, secondo la FAO, l’anno scorso non hanno avuto sufficienti risorse per garantirsi il minimo di calorie giornaliere e di servizi necessari a rimanere in buona salute e a condurre una vita dignitosa.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
La povertà è donna e vive in Africa

Quindi, sono almeno 700 milioni le donne che vivono sotto la soglia di povertà.
Inutile dire che, nella grande maggioranza, vivono nel Sud del mondo, nelle zone rurali e nelle periferie delle megalopoli dei Paesi meno sviluppati, e soprattutto nell’Africa Sub – Sahariana, dove, secondo stime degli organismi internazionali competenti, oggi il 32% della popolazione si deve accontentare di un reddito pari, e spesso inferiore, ad un dollaro al giorno. La Banca Mondiale stima che, se nulla dovesse cambiare, nel 2015, traguardo posto per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio, un terzo di tutti i poveri del mondo vivrà nei Paesi africani. Dunque la povertà è donna e africana.

Le donne sono più povere degli uomini per differenti ragioni, ma tutte possono essere fatte risalire alla discriminazione e all’esclusione sociale dovuta al genere, fattori che hanno radici antiche e profonde e si materializzano in pratiche che, in molte fra le zone più povere del Pianeta, non sono ancora state riviste in modo da garantire uguaglianza di diritti e pari opportunità. In molti Paesi africani, ma non solo, la discriminazione affonda le sue radici fin nel diritto di famiglia e in pratiche tradizionali ancora molto radicate. Ad esempio: le donne non hanno lo stesso diritto all’eredità degli uomini; possono essere date in moglie dai padri o dai tutori; l’età consuetudinaria, ma anche legale, per contrarre matrimonio è bassissima, 15 anni sono sufficienti in Paesi per altri versi avanzati e considerati in pieno sviluppo economico, come il Sudan.

Il tasso medio di alfabetizzazione delle donne in Africa è del 51% (quello degli uomini è il 67%), ma se si prendono in considerazione le aree rurali il divario diventa ben più ampio e se ci si addentra in alcune zone dove l’isolamento è più marcato e certe tradizioni più radicate si fanno scoperte sorprendenti.

Bassa scolarità e/o analfabetismo significano dotazione minima di strumenti adatti a far fronte a eventuali, e sempre più frequenti, crisi che riducono le già scarse entrate familiari. Nelle zone rurali dei Paesi in via di sviluppo le donne capofamiglia sono il 23%, ma il numero aumenta nelle zone di conflitto e nelle baraccopoli delle capitali che accolgono popolazione in fuga da crisi politiche ed ambientali. Le famiglie che dipendono dal lavoro delle donne sono in fondo alle classifiche sul reddito in tutto il mondo; nei Paesi del Sud del mondo, e in quelli africani in particolare, queste famiglie scivolano velocissimamente verso la miseria assoluta.

Quanto al reddito, si va dal 30% di quello degli uomini nei Paesi del Nord Africa al 50% in quelli dell’Africa sub – sahariana, ma per un orario di lavoro ben più lungo. Una recente ricerca condotta in 9 Paesi ha trovato che, in media, lavorano un’ora e nove minuti in più al giorno, 8 ore circa alla settimana, 416 all’anno, per la metà dello stipendio riconosciuto agli uomini per lo stesso lavoro: una differenza davvero significativa.

D’altra parte è ormai provato che il ruolo delle donne nello sviluppo economico è fondamentale. Sono almeno due decenni che tutti i donatori istituzionali supportano azioni positive nei confronti delle donne e chiedono un’analisi di genere negli studi di fattibilità dei progetti di sviluppo e un coinvolgimento effettivo nelle attività da finanziare; generalmente il finanziamento dipende da quanto questi due elementi sono convincenti. E questo certamente non per buon cuore, ma perché si è verificato che gli stanziamenti a loro favore hanno un effetto moltiplicatore misurabile in termini di migliori condizioni di salute, educazione, nutrizione a livello familiare e di comunità, sono maggiormente sostenibili, suscitano un maggior senso di solidarietà nella comunità e dunque pongono basi migliori per interventi successivi.

Ma le donne continuano a rimanere più povere degli uomini, cosa che rimette al centro del problema della riduzione della povertà la necessità di ridurre, innanzitutto, le discriminazioni di genere e di favorire politiche che sostengono le pari opportunità e l’inclusione sociale.

Fonte: www.unita.it
4 Giugno

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento