La natura dei diritti
Seyla Benhabib
Il potere del soggetto oltre l’onere della storia. L’era aperta dalla "Dichiarazione universale dei diritti umani" da parte delle Nazioni Unite, tra obbedienza all’autorità, conflitti in difesa di un’identità culturale e rispetto delle minoranze nella crisi dello stato nazione.
La Dichiarazione universale del 1948 e la successiva era dei diritti umani rispecchia le esperienze di apprendimento morale dell’umanità non solo occidentale. Le guerre mondiali furono combattute non soltanto nel continente europeo, ma anche nelle colonie, nel Medio Oriente, in Africa e in Asia. Le lotte di liberazione nazionale e anti-colonizzazione del secondo dopoguerra, a loro volta, diedero vita a principi di autodeterminazione. I documenti di diritto pubblico, già richiamati, sono il precipitato tanto di lotte collettive quanto di processi di apprendimento collettivi. Forse è utopico definirli passi avanti verso una costituzione mondiale, ma sono certamente più di semplici trattati interstatali: sono documenti di diritto pubblico globali che, unitamente a molti altri sviluppi nell’ambito della lex mercatoria, stanno mutando il panorama dell’ambito internazionale; cosituiscono pertanto componenti fondamentali di una società civile globale, e non meramente internazionale. In essa gli individui sono titolari di diritti in virtù non solo della loro cittadinanza statale, ma anche parimenti della loro umanità. Benché gli stati rimangano gli attori più potenti, lo spettro della loro attività legale legittima si restringe sempre più. Abbiamo bisogno di ripensare il diritto dei popoli alla luce dell’architrave di questa recente, crescente e fragile società civile globale, da sempre minacciata dalla guerra, dalla violenza e dagli interventi militari. E’ il caso di depurare il discorso sui diritti umani dalla retorica interventista che l’ha così spesso accompagnato negli ultimi tempi: non c’è dubbio, infatti, che gran parte della reticenza filosofica nel proporre un diritto umano alla democrazia sia legata alla volontà di distanziarsi dalla disastrosa politica estera dell’amministrazione Bush, che si è servita del linguaggio dei diritti umani come foglia di fico per giustificare le sue ambizioni interventiste.
Protetti per decreto
Ci si potrebbe tuttavia domandare se, rimandando alla società civile e alla sfera pubblica quali arene privilegiate per l’articolazione tanto di norme quanto di iterazioni democratiche, non si stiano per caso ignorando i frequenti casi di abusi in fatto di diritti umani, talmente gravi da far apparire necessario l’intervento armato per mantenersi fedeli al cosmopolitismo giuridico. A tal riguardo, si consideri innanzitutto che la Carta delle Nazioni Unite autorizza guerre di legittima difesa da parte dei suoi aderenti, mente l’articolo 51 della stessa autorizza azioni militari in caso di attacco armato contro uno dei membri di un’organizzazione come la Nato, entrambi richiamati in occasione dell’attacco al World Trade Center.
La Convenzione sul genocidio obbliga gli Stati a intraprendere azioni militai per prevenire genocidi, riduzioni alla schiavitù e pulizie etniche (previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu). Come riconosciuto dalla maggiorparte dei giuristi internazionali, pertanto, si è attualmente in equilibrio u un piano inclinato, con i giudici che sembrano creare diritto, da un lato, dall’altro, governanti che caldeggiano la formazione di nuove leggi in tale ambito. Le basi per l’intervento umanitario si stanno allargando al principio dell’ «obbligo di proteggere» (Kofi Annan). Chi siano i destinatari di tale obbligo è tutt’altro che chiaro: se fossero le Nazioni Unite, allora la prassi attuale di considerare legittimo l’intervento militare intrapreso da esse solo se autorizzato dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza andrebbe rivisto.
In nome dell’etica
L’obbligo di proteggere non può essere semplicemente rimesso al potere di veto di cinque membri permanenti del Consiglio; tali impegni stanno conducendo le Nazioni Unite in direzioni opposte, senza nessuna chiara risoluzione in vista. Ci siamo spinti in acque inesplorate nell’arena internazionale. In generale sono contraria allo strisciante interventismo sotteso alla formulazione dell’obbligo di proteggere, riponendo le mie speranze, per quanto possibile e necessario, nelle capacità della società civile e nelle organizzazioni non governative di estendere le norme internazionali e indurre ogni società a un maggior rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il mio impegno nei confronti della società civile in questo campo non deve essere confuso con un antistatalismo neoliberale. Entro i limiti delle politiche in atto, lo Stato è il principale attore pubblico, che ha la responsabilità di garantire al su interno che le norme concernenti i diritti umani siano sia giuridificate che giustiziate. In ogni caso, molti Stati si sono volontariamente impegnati nei confronti dei vari documenti pubblici sui diritti umani, sicché essi sono anche soggetti a un insieme di attori e gruppi transnazionali che costituiscono i principali agenti dell’estensione dell’osservanza giuridica, del rispetto e del monitoraggio dei diritti umani.
Quando, per quali ragioni e a quali condizioni l’intervento militare atto a fermare gravi violazioni dei diritti umani resta una questione aperta dell’etica politica. Con «etica politica» intendo l’equilibrio tra intenzioni e conseguenze, tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione (Max Weber). Soprattutto nel caso in cui gli Stati vengano considerati gli unici fautori dell’intervento ed esso comporti il ricorso alla forza armata, esclusivamente la prevenzione del genocidio, della riduzione in schiavitù e della pulizie etnica può giustificare atti simili. Rimuovere un regime non costituisce una giustificazione. In quanto membri di una comunità mondiale, ci sono infiniti altri modi, che vanno ben al di là dell’intervento militare e dell’uso della forza, in cui possiamo intervenire oltre confine per estendere la democrazia, la società civile e una sfera pubblica libera.
I dilemmi del politico
C’è bisogno, in conclusione, di un nuovo assetto normativo regolante l’intervento umanitario, che faccia maggior chiarezza sulle condizioni giustificanti l’intervento delle Nazioni Unite nelle questioni interne di uno Stato. In quanto casi di interventi intrapresi o mancati, Kosovo, Ruanda, Iraq, Darfur e altri contesti dimostrano che la Convenzione sul genocidio e la Carta della Nazioni Unite, di per sé, non sono in grado di regolare al riguardo la comunità mondiale. Tuttavia, tali scelte rimarranno in ogni caso dilemmi che richiederanno sempre l’esercizio del giudizio politico. Ci si potrebbe chieder, con Allen Buchanan, se, in ambito internazionale, sia possibile per tramite di interventi non autorizzati una «illegale riforma giuridica internazionale». Tali questioni impongono ai cittadini, ai capi militari e agli uomini politici un «onere della storia». Personalmente ritengo che la filosofia non possa né guidarci per tutto il tragitto in tali decisioni né garantire che le nostre buone intenzioni non siano vanificate da eventi inaspettati, mutandosi nel loro opposto; né del resto dovrebbe essere chiamata a farlo.
Nondimeno, come Kant ebbe a osservare, vi è differenza tra il «moralisto politico», che abusa dei principi morali per giustificare decisioni politiche, e il «politico morale», che tenta di rimanere fedele ai principi morali nel condizionare gli accadimenti politici. Il discorso sui diritti umani è stato spesso strumentalizzato e abusato ad opera di moralisti politici; il suo compito fondamentale è quello di guidar ilo politico morale, sia questi un cittadino o un uomo politico. Tutto ciò che come filosofi possiamo offrire è una chiarificazione di ciò che può essere ritenuto legittimo e giusto nel campo degli stessi diritti umani.
Fonte: il Manifesto
8 settembre 2009
Un’anticipazione del saggio della filosofia di origine turca pubblicato nel terzo numero della rivista «Politica e Società».