La memoria dello Stadio Ghazi


Lettera22


Tempo di Olimpiadi anche per l’Afghanistan. Un altro modo per dimenticare il maledetto conflitto che colpisce spesso anche in città. Ma a Kabul anche le pietre hanno memoria. E non solo dei talebani. Un’incursione sportiva di E. Giordana e R. Martinis allo stadio Ghazi della capitale.


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La memoria dello Stadio Ghazi

Kabul – Il filo lucido di sudore che corre lungo la schiena di Khaled scintilla sotto l'ultimo sole che bacia lo stadio Ghazi di Kabul. E' ben diverso dal colore delle lacrime che devono aver inondato questo pezzo di terra sfibrata dove un alacre guardiano tenta disperatamente, e con un filo d'acqua, di riplasmare un tappeto erboso che sembra aver subìto, oltre alle angherie del tempo, quelle delle mille guerre che l'Afghanistan conosce dalla fine degli anni Settanta. Lo stadio Ghazi era l'arena in cui i talebani di mullah Omar radunavano le folle per assistere a lapidazioni ed esecuzioni sommarie. Andarci, come ci raccontarono allora quando ancora i turbanti dettavano legge su tutto il paese con l'esclusione della piccola enclave del Panjshir, era un obbligo etico. Piacesse o meno, era quello lo sport che doveva allietare i giorni di festa. Ma adesso che quel ricordo è lontano, sembra lontana anche la guerra che si combatte nelle province del Sud e che si fa ogni tanto sentire con gli attacchi kamikaze sin dentro la capitale (proprio qui, allo stadio, i talebani hanno attentato alla vita di Karzai in aprile). Khaled corre approfittando della clemenza di un luglio torrido che a sera regala qualche refolo di vento più fresco. Si allena, come può, per diventare un centometrista. Scarpette da ginnastica più grandi del suo numero e una sacca sportiva un po' slabbrata. Né cronometri, né allenatori. Nemmeno un famigliare con la bottiglietta d'acqua. Ma la passione c'è tutta.

Scarpette larghe, borse sdrucite

Poco più in là, anche due giovani lottatori stanno provando le mosse di una delle tante declinazioni di una disciplina che è tra le più gettonate in Afghanistan: khosti chapanaki forse, che si gioca a corpo seminudo, o khosti hazaraghi che consente solo la presa per le spalle e che, come si capisce, è uno sport diffuso tra le tribù hazara che vivono nell'area centrale del paese. Anche loro si allenano con mezzi di fortuna. E grazie a Dio la lotta libera non ha grandi costi. Si arrangiano come la folla di bambini che giocano a cricket poco fuori dallo stadio: mazze di legno troppo leggero e palle molto consumate o pad sgualciti e malconci. Ma una gran voglia di battere ed eliminare l'avversario.
Anche Mahboba Ahadyar, classe 1985, l'unica donna tra i quattro atleti afgani che quest'anno saranno a Pechino per le Olimpiadi, ha cominciato così. Anzi, nemmeno dallo stadio. Non è lei a raccontarci come è stata selezionata per i giochi per via che l'Afghanistan, troppo povero per potersi permettere di nutrire anche lo sport, l'ha spedita in Malaysia assieme a Massud Azizi, centometrista che ha già partecipato alle Olimpiadi di Atene nel 2004. Kuala Lumpur li ospita per prepararne muscoli e cervello. Così come fa la Corea del Sud con Nasar Amad Bahawi e Rohellah Nekpa, specialisti di takewondo, la disciplina in cui gli afgani hanno conquistato nel 2007 un argento agli ultimi mondiali della specialità. E che, chissà, ora potrebbe trasformarsi in una medaglia olimpica.
Mohammad Anwar Jekdalek, presidente del Comitato olimpico nazionale, è un uomo possente. Il suo ufficio, completamente rimesso a nuovo, domina lo stadio. "Come abbiamo selezionato Mahboba? Inventando una maratona per sole donne che attraversava Kabul. Cinque chilometri di corsa. Lei è arrivata prima. Ed è diventata la nostra scommessa per le Olimpiadi". Una storia che la dice lunga sulle difficoltà di una stagione che è però anche il segno di una piccola rivincita afgana. Jekdalek era uno di quelli che, quando regnava mullah Omar, aveva trovato rifugio nella valle del Panjshir. Ma non stava con le mani in mano.

Dai mujaheddin al Cio

Mostra orgoglioso la fotografia che lo ritrae con Ahmad Shah Massud, il leone del Panjshir, l'uomo che fu ucciso due giorni prima dell'11 settembre da Al Qaeda. Massud è diventato l'eroe nazionale per antonomasia e il suo volto da intellettuale raffinato campeggia adesso ai margini dello stadio Ghazi. Di questi tempi a nessuno va di raccontare la vera storia di questo capo, diventato l'icona della resistenza anti talebana. Anche lui, in realtà, ha sulla coscienza, oltre al fallimento dell'unità dei mujaheddin anti sovietici (che continuando a litigare tra loro favorirono l'ascesa dei talebani), un bel numero di stragi. Non si fidava degli Hazara. E in più di un'occasione usò le bombe per dimostrare il suo disaccordo. Ma questa è un'altra storia, ancora tutta da scrivere e che forse richiederà molto tempo.
Nello studio di Jekdalek sfavillano un bel numero di coppe. Ma i soldi sono pochi e del resto chi pensa mai di investire nello sport in Afghanistan? In realtà qualcuno ci ha pensato. "Il vostro Mario Pescante ad esempio" ricorda Jekdalek dicendo che l'attuale parlamentare italiano è stato tra coloro che una mano l'hanno data. Ma adesso ci sono gli iraniani che si sono fatti sotto. Si inaugura un centro sportivo che Teheran ha appena finanziato. Occhio lungo che fa pensare all'enorme centro universitario di studi islamici che, con tanto di moschea, l'Iran sta terminando a pochi metri dall'ex palazzo del re nella capitale, ridotto da anni a un cumulo di macerie.

Passione contro povertà

A supplire la mancanza di denaro per ora ci pensa la passione. Ci si allena sulla pista dello stadio, negli angusti spogliatoi o nel grande spiazzo antistante al Ghazi dove adesso giocano i giovani cricketer in una nuvola di polvere.
Per la verità, lo spiazzo che adesso serve come cricket field è quello dove si corre il gioco afgano per eccellenza: il buzkashi. Peccato che non sia una specialità olimpica perché di sicuro gli afgani avrebbero da temere pochi concorrenti. Al più qualche team dell'Asia centrale. E' un gioco che prevede squadre di cavalieri, i chapandaz, che devono recuperare la carcassa di un vitello e portarla all'esterno dell'arena. Gioco violento e spettacolare che ha incantato viaggiatori e scrittori e che è una vera e propria passione nazionale che né la guerra, né i colpi di stato, né i talebani hanno mai cancellato. Ma anche questa è un'altra storia. Eppoi adesso non è stagione di buzkashi. E' tempo di Olimpiadi anche qui. E una medaglia sarebbe davvero un bel regalo.

Fonte: Lettera22, il Sole24Ore e blog di Emanuele Giordana

Domenica 27 luglio 2008

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