La linea rossa, a Gerusalemme


Paola Caridi - www.invisiblearabs.com


Dopo l’attentato del 14 luglio, le autorità israeliane hanno deciso la linea dura, nonostante molte erano state le voci contrarie a un innalzamento di misure che avrebbero dato fuoco alle polveri. Micce che rischiano di essere accese da almeno dieci anni, ogni giorno di più. Oggi, sono state accese.


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Le immagini mostrano più delle parole, ormai da tempo. Mai, mai almeno negli ultimi 15 anni, Salaheddin Street è stata così simbolica. La strada commerciale di Gerusalemme est, la strada che conduce a una delle Porte della Città Vecchia meno conosciute ma più frequentate dalla popolazione palestinese. Salaheddin street, la strada che finisce, proprio accanto alle Mura antiche di Solimano il Grande, con il posto di polizia israeliana e l’ufficio postale dove (senza alcuna privacy) i palestinesi di Gerusalemme votarono nelle elezioni politiche del 2006. Salaheddin street, la strada più vivace di Gerusalemme est, è diventata stamattina una moschea a cielo aperto. Le immagini mostrano una strada piena di fedeli, giù fino in fondo, fin dove può arrivare l’obiettivo.

Un’altra delle linee rosse di Gerusalemme è stata superata Si chiama Al Aqsa, la Spianata delle Moschee. Non è la prima volta, certo. Poco più di vent’anni fa, nel 1996, un’altra delle linee rosse nel cosiddetto Bacino Sacro di Gerusalemme fu superata anche allora dal premier Benjamin Netanyahu. La linea rossa del tunnel che corre lungo che mura che reggono l’enorme Spianata delle Moschee, voluta dal governo israeliano per sostenere con storia e archeologia la presenza ebraica dentro la Città Vecchia, fu una rottura consapevole dello status quo che vige nel cuore di Gerusalemme. Non è mai da dimenticare che, per lo sviluppo storico del conflitto israelo-palestinese, la Città Vecchia è occupata dalle autorità israeliane dal 1967, esattamente da mezzo secolo fa. Vige, dunque, il diritto internazionale che regola i comportamenti della potenza occupante (Israele) su una porzione di città in cui vive la popolazione palestinese.

Nel 1996, la crisi del Tunnel Asmoneo costò la vita di almeno cento palestinesi e 17 israeliani. Ce lo possiamo immaginare, vent’anni dopo, come simile a quello che sta succedendo da tre giorni a Gerusalemme. Con una differenza, evidente non solo nella foto che ho scelto per questo post, ma nelle decine e decine di foto, nei video che – a differenza di allora – riempiono il nostro archivio individuale, digitale delle notizie. La città è militarizzata, i giornali locali parlano di tremila poliziotti, in tenuta antisommossa e giubbotti antiproiettile. In una città in cui la presenza di armi è di quasi esclusivo monopolio di forze di sicurezza e coloni israeliani. E le forze di sicurezza israeliane sono intervenute su civili che pregavano, stringendo come in un cordone la Città Vecchia. La resistenza non violenta, sinora, è la componente più importante di quella che, tra i palestinesi, viene chiamata la “crisi degli scanner”.

La crisi comincia con un’altra linea rossa superata. Un attentato compiuto sulla Spianata delle Moschee da tre palestinesi con cittadinanza israeliana provenienti dall’area di Umm al Fahm. Cittadini israeliani, dal punto di vista giuridico. Un uomo di 29 anni, due ragazzi di 19, uccidono due poliziotti di frontiera israeliani. Drusi, per la precisione, perché sono drusi i poliziotti di frontiera israeliani che sono dislocati in luoghi sensibili. Come tutta l’area della Spianata delle Moschee e delle porte che immettono sulla zona sacra, il terzo luogo santo dell’islam. La violenza, da anni, ha ormai superato quel singolare livello di guardia che ne faceva un luogo differente rispetto al resto di Gerusalemme. Un attentato di questo tipo, però, non ha praticamente precedenti, negli ultimi decenni. Anche perché indica quanto la violenza a Gerusalemme si connoti come, a suo modo, una guerra civile. Una guerra della città. Un conflitto che va oltre il confronto tra palestinesi e israeliani. Le vittime dell’attentato del 14 luglio non sono israeliani ebrei. Avevano un passaporto israeliano, fedi diverse, humus culturale profondamente diverso. I tre attentatori venivano da una cittadina considerata roccaforte del Movimento Islamico, una formazione politica e d’opinione fortemente conservatrice, in Israele. Venivano dal triangolo di Umm al Fahm.

Dopo l’attentato del 14 luglio, le autorità israeliane hanno deciso la linea dura, nonostante molte – soprattutto tra i ranghi della sicurezza – erano state le voci contrarie a un innalzamento di misure che avrebbero dato fuoco alle polveri. Alla base di una tensione che in molti sapevamo sarebbe scoppiata, vi è stata la decisione di installare dei metal detector a ridosso delle grandi porte che immettono sulla Spianata, soprattutto vicino alla Porta dei Leoni, ingresso attraverso il quale passano molti dei fedeli musulmani, e alla porta del Waqf, la massima autorità islamica che sovrintende alle Moschee e al patrimonio.

Visto con occhi europei, e con gli occhi di chi è sempre più sensibile in Italia ai temi della sicurezza, non si riesce a comprendere come mai installare dei metal detector possa accendere un fuoco che si diffonde con tale rapidità. Vista con gli occhi dei palestinesi, che da anni vedono messa a rischio la loro stessa presenza, esistenza a Gerusalemme est, e dunque in Città Vecchia, quello che succede da tre giorni a questa parte in città assume tutta un’altra dimensione. A gestire i metal detector che immettono sulla Spianata delle Moschee è la polizia israeliana, cioè la potenza occupante: non è la polizia riconosciuta come uno dei corpi di uno Stato, quella a cui viene demandata la sicurezza dei cittadini. Che la tensione potesse scoppiare, d’altro canto, lo scrivono da oltre un decennio i consoli europei a Gerusalemme, preoccupati proprio di quello che, ora, sta succedendo. Parole scritte, ma al vento. Parole che stigmatizzano la presenza dei coloni all’interno dei quartieri che fanno da cintura alla Città Vecchia, e persino dentro il Quartiere Musulmano della zona antica. Parole che sottolineano come la pressione di esponenti radicali israeliani per cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee può solo far esplodere una rabbia già evidente. Per i palestinesi, la paura di fondo è quello che hanno visto a Hebron/Khalil: la hebronizzazione della parte storica della città, a causa della presenza dei coloni israeliani.

Micce che rischiano di essere accese da almeno dieci anni, ogni giorno di più. Oggi, sono state accese. E tutti noi, che a Gerusalemme, di fronte alla Città Vecchia abbiamo vissuto così a lungo, ci chiediamo cosa succederà domani. Perché noi, quelli che sono stati abitanti di Gerusalemme, non lo sappiamo. Sappiamo, però, che le decisioni prese su Gerusalemme e sui suoi abitanti non sono né indolori, né possono essere prese come se si fosse in una gara di braccio di ferro.

Uno dei  tragici episodi di oggi, peraltro, è il simbolo di ciò di cui parlavano i consoli europei, analisti, giornalisti, studiosi (mi metto in questo novero). A uccidere un ragazzo palestinese di 17 anni alla nuca, dicono i testimoni e scrivono i giornali israeliani, è stato un colono. Immortalato in una foto che gira su twitter, armato con un fucile ad alta precisione, un fucile da cecchino. Il ragazzo, Mohammed Sharaf, si era da poco diplomato, come testimonia la sua foto con la classica toga e il tocco. Come diplomato da poco era Mohammed Lutfi, 18 anni, ucciso dalla polizia israeliana.  Vorrei, per loro, la stesso spazio che giustamente è stato dedicato ai morti israeliani.

Aggiornamento: Gli scontri continuano. Sono stati arrestati alcuni dei leader politici palestinesi di Gerusalemme. I morti accertati sono 3, tutti ragazzi palestinesi. Anche se si parla di una quarta vittime. In almeno due casi, i funerali delle vittime sono stati fatti subito, per evitare che i soldati israeliani sequestrassero i corpi e li restituissero, come quasi sempre è successo, dopo molti mesi e lunghe trattative. Il corpo di una delle vittime è stato portato fuori dall’ospedale praticamente di nascosto, prima che arrivassero i soldati. Basta una semplice ricerca su twitter (preferibilmente in arabo, ma anche in inglese può essere sufficiente) per trovare foto e video sulle vittime.

Povera Gerusalemme, città che nasconde i suoi abitanti al mondo.

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