La guerra in sandali o con l’elmetto
Emanuele Giordana - Lettera22
Ricomincia il diario dall’Afghanistan di Emanuele Giordana: "La macchina occidentale della guerra è ben oliata e organizzata: grandi mezzi, tecnologie all’avanguardia, sistemi d’arma sofisticati e veicoli d’ogni tipo. Divise in ordine e una buona logistica. Come farà una guerriglia stracciona in sandali ad avere ragione di questa macchina quasi perfetta?
Camp Arena, Isaf Command West (Herat) –Non ero mai stato prima in una caserma in Afghanistan. Non, almeno, un tempo cosi lungo per far caso che una caserma, la “casa” della guerra, è il luogo dove si capisce come mai questa guerra non sarà mai vinta: né dagli occidentali, né dai talebani. La macchina occidentale della guerra è ben oliata e organizzata: grandi mezzi, tecnologie all'avanguardia, sistemi d'arma sofisticati e veicoli d'ogni tipo. Divise in ordine e una buona logistica. Come farà una guerriglia stracciona in sandali ad avere ragione di questa macchina quasi perfetta? Si, certo, in campo aperto, tra attentati e agguati, i sandali fanno premio sulla mimetica (nel senso che i talebani son certo più agili di questi soldati pieni di orpelli alla GI-Joe) ma la battaglia finale non riuscirebbero a vincerla. Per prendere una caserma come quella in cui sono ospite a Herat, o ci butti una valanga di bombe o nisba.
Ma, dall'altra parte, la caserma è anche il segno evidente del perché non vincerà la Nato. Tutto è così lindo e organizzato da far pensare a una scuola quadri: un centro di addestramento perenne dove la guerra vera non si fa. E persino i soldati (fortunatamente) non son più quelli di una volta. Assomigliano più a uomini che ad eroi e questo nuoce alla guerra cui siamo stati abituati. Si fanno la doccia, vanno a mangiare, bevono caffè corretto nel baretto dell'angolo (della caserma). Non vedi quei marine alla J. Wayne, sudati e sporchi con l'olezzo della polvere da sparo. Qui semmai c'è odore di sudore da troppo caldo e profumi di varechina nei cessi lindi come in un collegio. Oggi poi, nessuna democrazia è in grado di sacrificare i suoi soldati: subito ne nasce una polemica se non erano protetti o non avevan qui, non avevan là. E' giusto che sia così ma ciò non fa bene alla guerra anche se dà garanzie alla pace. Maq a un tempo nuoce alla guerra la retorica pacifista. Non tanto quella dei pacifisti quanto quella dei militari stessi. Questi eserciti moderni la guerra – specie se asimmetrica – la perdono per default. Non abbiamo più armate di cow boy ma damerini in divisa, persino eleganti in queste mimetiche che il deserto lo devono veder raramente. E' quel che insegna la caserma. Ma c'è dell'altro.
Le guerre si vincono col consenso e nessuno dei due contendenti ce l'ha. Non ce l'abbiamo noi che con una mano facciamo scuole e con l'altra bombardiamo i civili. Non ce l'hanno i talebani che restano un regime odiato dai più e da quelli che hanno memoria dei loro eccessi ma….sul lungo periodo a guadagnare sarebbero loro: intanto sono afgani e noi stranieri. Eppoi, dove il fragile stato di Karzai non c'è, suppliscono ai servizi essenziali: giustizia, educazione (si anche educazione perché una madrasa è pur sempre una scuola), amministrazione pubblica. Fan ciò che serve e, in molti casi, con onestà. Sul lungo periodo ce la farebbero loro. Per consenso indotto, non per adesione ai loro ideali. Perché non c'è di meglio e l'Occidente di meglio non sa fare. Ecco perché è il momento di negoziare. Siamo stanchi noi ma lo sono anche loro. E nessuno avanza di un metro. Si tengono le posizioni, come nella caserma Arena di Herat. Dove il mio pernottamento è stata un'altra lezione di pragmatica verità cullata dalla generosità e attenzione di questi nuovi militari, più uomini sulla linea del fronte che soldati. Per fortuna, dal mio punto di vista. Quello di uno a cui la guerra non piace per niente.
Fonte: Lettera22
26 aprile 2009
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