La conferenza di Palermo porterà la pace in Libia?
Internazionale
Il conflitto in Libia è diventato così difficile da risolvere, e così ingarbugliato, che servirà un mezzo miracolo per raggiungere una pace articolata e significativa.
Mentre i capi di stato del mondo si riuniscono a Palermo per la conferenza del 12 e 13 novembre, i libici si chiedono cosa uscirà da questo evento molto atteso.
I risultati ottenuti in passato dalla comunità internazionale in Libia non sono del tutto incoraggianti. Fin dal 2014, i tentativi delle Nazioni Unite di negoziare una pace sono stati fallimentari e hanno aggravato una situazione già catastrofica. Più di recente, gli sforzi della comunità internazionale sono stati ostacolati dall’attuale disputa tra l’Italia e la Francia su chi debba essere a capo del dossier libico.
La conferenza di Palermo riguarda la ricerca della pace, ma al centro c’è anche il tentativo da parte dell’Italia di riprendere l’iniziativa dalle mani della Francia, che l’aveva sottratta a Roma con la sua conferenza di Parigi del maggio 2018.
L’accordo che è emerso in Francia ha stabilito una tabella di marcia assurdamente ottimistica per il quadro politico e prevedeva elezioni per il dicembre 2018. Adesso che questa tabella di marcia è saltata, la conferenza di Palermo è il modo con cui l’Italia riafferma il suo ruolo, e Roma sta cercando di convincere il maggior numero possibile di capi di stato mondiali a partecipare all’evento.
Il primo ministro italiano Giuseppe Conte si è sforzato di affermare che si tratterà di “una conferenza per la Libia e non sulla Libia”. Si tratta di una posizione apprezzabile. Durante buona parte della sua storia, la Libia è stata alla mercé delle potenze straniere. Degli ottomani, poi dei colonizzatori italiani, quindi dei britannici e oggi delle potenze regionali, per non parlare delle varie “soluzioni” imposte dalle Nazioni Unite: il destino della Libia spesso non è stato nelle mani del paese.
È però difficile conciliare l’annuncio di Conte con le notizie secondo cui l’Onu starebbe per presentare l’ennesimo nuovo piano per la Libia nel corso dell’incontro di Palermo. Anche se i dettagli non sono ancora stati definiti, sembra che il piano preveda una nuova tabella di marcia che rimanderà all’anno prossimo le elezioni, oltre che nuove misure per affrontare la crisi di sicurezza nella capitale e rilanciare un’economia in difficoltà.
Ancora una volta, quindi, la comunità internazionale vuole imporre in Libia un piano che vede nelle elezioni una panacea a tutti i mali del paese. Finora nulla suggerisce che questa riunione porterà qualcosa di nuovo.
La dura realtà
È vero che l’Italia ha sostenuto un approccio inclusivo dal basso, contrariamente allo stile più verticistico della Francia, che ha portato solo alcune statistiche al tavolo delle trattative. Roma ha investito una notevole energia diplomatica nell’invitare un ampio spettro di esponenti libici, tra cui il generale Khalifa Haftar, che recentemente ha accusato l’Italia di essere un “nemico”. Anche se un approccio più inclusivo è il benvenuto, il fatto di portare più gruppi al tavolo dei negoziati non produrrà, di per sé, un risultato migliore.
La dura realtà è che quanti detengono il potere sul campo non sono ancora pronti per la pace. In un paese dove la cultura politica è gravemente arretrata, al senso del bene nazionale comune si è sostituita la politica delle città e delle tribù, con tutti gli attori impegnati a difendere i propri interessi, a ogni costo.
Ancora non esistono un potere o un’istituzione capaci di trascendere queste divisioni e, con uno stato che funge da vacca da mungere, che smista denaro nelle tasche di tutti indistintamente, questi intermediari di potere locali hanno poco interesse ad accettare qualsiasi cosa possa sconvolgere lo statu quo.
Inoltre tutte queste forze, molte delle quali sono state legittimate dalla comunità internazionale, hanno tendenze autoritarie. Sono anche imbevute di una mentalità di vendetta che si è diffusa in Libia dopo Gheddafi.
Non è solo il sistema di governo della Libia a essere frammentato, ma tutta la società libica. Nel frattempo il catalogo di violazioni dei diritti umani, commesse da tutte le parti in lotta in questo conflitto, è stato nascosto sotto il tappeto. Parlare di elezioni in un simile contesto appare, nel migliore dei casi, risibile.
Tanto più che i vari mediatori di potere che continuano a ruotare e a essere presentati come rappresentanti nel corso di riunioni internazionali non sono in una posizione tale da poter garantire una pace.
Nelle mani delle milizie
Il capo del consiglio presidenziale, Fayez al Sarraj, è una persona senza potere all’interno di un’istituzione senza potere che si è dimostrata incapace di ottenere una qualsiasi legittimità in Libia. Per questo ha le mani legate da una serie di milizie che tengono sotto scacco la capitale. Nonostante vari sforzi di riconvertire tali milizie in forze professionali, queste rimangono essenzialmente dei gruppi armati raffazzonati che agiscono secondo il loro capriccio.
Altrettanto impotente è Khalid al Mishri, capo dell’alto consiglio di stato, un’altra istituzione prodotta dal processo di pace dell’Onu e nata morta.
Quel che un tempo era la spina dorsale della Libia occidentale, l’alleanza tra Misurata e le forze perlopiù islamiste nella capitale e altrove, è stata fatta a pezzi molto tempo fa. Oggi Misurata è così divisa e demoralizzata che non può più esercitare l’influenza che aveva in passato. La verità è che non esiste alcuna potenza, nella Libia occidentale, capace di garantire una pace.
Khalifa Haftar, invece, è da solo una potenza, e controlla tutto l’est del paese. Questo ha creato un profondo squilibrio nei negoziati. Tuttavia anche l’influenza di Haftar è limitata, dato che le sue ambizioni personali e le sue tendenze autoritarie hanno fatto di lui una figura che divide. La questione fondamentale che è stata alla base dei conflitti in Libia fin dal 2014, ovvero il ruolo che dovrebbe appunto ricoprire Haftar, deve ancora essere risolta e rimane il principale ostacolo alla riunificazione del paese.
Ci sono poche possibilità che la conferenza di Palermo riesca laddove altre hanno fallito. Anche se la Francia e l’Italia riuscissero a mettere da parte le loro divergenze, i ripetuti tentativi della comunità internazionale di costringere le diverse componenti della Libia a collaborare nel quadro di un piano imposto dalle Nazioni Unite hanno buone probabilità di rivelarsi controproducenti.
Ciò detto il compito che aspetta la comunità internazionale rimane effettivamente enorme. Il conflitto in Libia è diventato così difficile da risolvere, e così ingarbugliato, che servirà un mezzo miracolo per raggiungere una pace articolata e significativa. Tuttavia, l’insistenza nel ripercorrere la stessa strada, per mancanza di un’alternativa migliore, non è la soluzione e rischia di aggravare ulteriormente la crisi libica.
Alison Pargeter, Middle East Eye, Regno Unito
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su Middle East Eye.
13 novembre 2018