La bomba Centrafrica
Davide Maggiore - ilmondodiannibale.globalist.it
Nei palazzi di Bangui immobilità e opacità, il resto del Paese è ancora paralizzato. E l’emergenza umanitaria porta con sé il rischio di una nuova esplosione.
Le discussioni di Bangui coprono il silenzio di un paese che muore. Le poche notizie della Repubblica Centrafricana riportate dalla stampa specializzata riguardano i palazzi del potere e i contatti con i capi di Stato della regione. I leader politici dell’ex ribellione Seleka mantengono il potere: a loro restano, anche dopo l’ultimo ‘rimpasto’, i posti chiave del nuovo governo “d’unità nazionale” guidato da Nicolas Tiangaye. Il capo dello Stato provvisorio ed ex ribelle Michel Djotodia conserva – soprattutto – l’interim della Difesa, anche se qualche vecchio fedele del presidente deposto Bozizé è riuscito a ritagliarsi spazi di relativo potere.
Josue Binoua, pastore evangelico, più volte ministro negli scorsi anni, è diventato consigliere per gli affari religiosi: una mossa interpretata da molti come un tentativo di Djotodia – primo presidente centrafricano di fede musulmana – di dare un’immagine di leader laico dopo essere stato investito dalle accuse di vicinanza, o quanto meno di compiacenza, nei confronti di gruppi ribelli autori di attacchi a chiese e istituzioni religiose. Segue probabilmente la stessa logica un recente accordo con le autorità del Sudan. Molti accusano i ribelli Seleka di essere semplicemente miliziani stranieri, in particolare ciadiani e sudanesi; un sospetto che il governo di Khartoum spera forse di distogliere da sé annunciando pattugliamenti congiunti sulla frontiera. Ma la disponibilità a fornire assistenza militare e nel campo dell’addestramento potrebbe essere anche interpretata come una conferma della vicinanza di Djotodia al regime di Omar al-Bashir.
Se Djotodia pensa soprattutto a rassicurare gli osservatori esterni – in maggioranza tutt’altro che entusiasti della sua ascesa al potere – è però la situazione interna che continua a sfuggirgli di mano. La questione dell’ordine pubblico sembra essersi fatta – è vero – meno urgente, ma resta in definitiva non risolta; del resto il Centrafrica è da anni, a tutti gli effetti, uno ‘Stato fallito’, con la maggior parte del territorio ormai fuori dalla portata delle autorità. Le violenze cominciate a fine 2012, poi, hanno avuto conseguenze umanitarie che durano ancora: lo confermano testimonianze dalle regioni del sud-ovest, al confine con il Camerun, che citiamo in maniera anonima visto il contesto ancora instabile; l’area infatti “non è stata considerata nel percorso della ribellione verso la capitale” ma qui le conseguenze dirette e indirette degli scontri “soprattutto per via dei giovani fuggiti da Bangui, sono state molto gravi”.
Ancora ad aprile, nell’area, che comprende tra l’altro la seconda città centrafricana, Berberati, si segnalavano stupri, saccheggi e uccisioni attribuiti ai ribelli Seleka. Ad essere prese di mira non erano solo istituzioni pubbliche, come prefetture, uffici dell’amministrazione governativa e commissariati, ma anche attività private e singoli cittadini. Oggi la situazione è migliore ma bisogna ricordare che durante gli scontri molte persone “soprattutto donne con bambini”, hanno lasciato i centri abitati per rifugiarsi nella boscaglia. Sono le stesse che ora, rientrate nelle loro case saccheggiate, devono fare i conti con malattie e malnutrizione: “per un mese si può reggere – prosegue una testimonianza – mangiando cocco e foglie di manioca, ma dopo.”. È per questo che nei centri sanitari si vedono “madri simili a scheletri, con bambini nelle stesse condizioni”, anche a causa dell’Aids.
La chiusura delle banche, che va avanti da fine marzo, impedisce alla popolazione di avere denaro sufficiente, ad esempio, per comprare medicine, o pagare le cure negli ospedali, ma anche a missionari e ong, per lo stesso motivo, hanno problemi a fornire assistenza. La paralisi economica riguarda tutti i livelli: la produzione agricola, con i campi che restano spesso abbandonati; il commercio (in alcuni casi, persino chi vende generi alimentari ha visto le sue entrate diminuire di oltre il 90%); l’allevamento, perché i furti di bestiame che si sono affiancati ai saccheggi. A livello più alto, anche il commercio di diamanti è praticamente bloccato, per l’esclusione della Repubblica Centrafricana dal Kimberley Process, pensato per prevenire l’esportazione di ‘pietre preziose da conflitto’.
Nella situazione di calma precaria che si vive nella regione, anche le scuole restano vuote: le lezioni sono interrotte, perché molte famiglie temono ancora che i loro figli possano essere rapiti e liberati solo dopo il pagamento di un riscatto. I pochi che ancora possiedono abbastanza denaro, in più, cercano di tenerlo nascosto: il rischio è quello di diventare vittime di saccheggi mirati. La paura, la disperazione e il vero e proprio vuoto di potere, nascondono però un pericolo ancora più grande: che la parola torni di nuovo alle armi e alla violenza, all’ennesima ‘rivoluzione’ incapace, come quelle che l’hanno preceduta, di risolvere le vere emergenze del Paese, precipitandolo, invece, ancora più a fondo nella sua crisi. Che le istituzioni centrali e la comunità internazionale, continuano a sottovalutare e – in molti casi – a ignorare.
Fonte: http://www.globalist.it
25 Giugno 2013