“La Birmania torni a essere priorità”
Antonella Napoli
“E’ urgente che si apra finalmente un confronto effettivo e concreto tra chi è al potere e l’opposizione guidata da Aung San Suu Kyi e le minoranze etniche”. Ad affermarlo è Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo ombra.
Ad Articolo21 Fassino rilancia l’iniziativa europea per l’ex Birmania, parla dell’importanza della nuova politica estera degli Stati Uniti e della crisi Medio Orientale.
Nei giorni scorsi, nella veste di inviato speciale dell’Ue per la questione birmana, ha incontrato il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, quale rappresentante della presidenza di turno europea, per discutere di un’azione diplomatica che porti all’apertura di un dialogo effettivo tra la Giunta militare del Myanmar e l’opposizione guidata dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. In che modo l’Europa può dare un proprio contributo?
“In questi colloqui a Bruxelles siamo partiti dalla considerazione che bisogna evitare che le tante emergenze che ogni giorno intervengono sulla scena internazionale – oggi il Medio oriente, prima la Georgia e così via – finiscano per oscurare una crisi altrettanto grave come quella birmana. E’ assolutamente necessario che la comunità internazionale continui a ritenerla una priorità e mantenga alta l’attenzione e non diminuisca l’impegno nella ricerca di un dialogo con la Giunta, tanto più in vista delle elezioni previste nel 2010. E’ urgente che si apra finalmente un confronto effettivo e concreto tra chi è al potere e l’opposizione guidata da Aung San Suu Kyi e le minoranze etniche. E’ un punto fondamentale affinché si possa realizzare un percorso verso elezioni libere e far sì che non si riducano a una farsa e siano davvero trasparenti, un evento democratico in cui possano riconoscersi tutti i birmani”.
Ma al momento i presupposti affinché ciò si realizzi sono alquanto labili…
“Certo. Ad oggi non ci sono garanzie democratiche in tal senso. Ed è per questo che è necessario creare le condizioni affinché il contesto cambi. Bisogna lavorare per ottenere che i protagonisti della società birmana, sia chi detiene il potere che chi si oppone, possano sedersi intorno a un tavolo per avviare un discorso in cui tutti possano riconoscersi e faccia sentire tutti egualmente garantiti. Bisogna impegnarsi e muoversi con convinzione verso questa direzione, sia attraverso un’iniziativa europea che sostenendo in modo forte l’azione dell’Onu, il cui inviato speciale Gambari, incaricato di promuovere la riconciliazione politica in Birmania, partirà la prossima settimana per una nuova missione”.
La precedente visita di Gambari aveva però deluso il movimento filo democratico birmano che aveva rimproverato all’inviato delle Nazioni Unite di non aver prodotto iniziative concrete verso la riconciliazione da parte della giunta militare. E anche la risoluzione approvata il 25 dicembre dall’Assemblea generale dell’Onu per condannare le continue violazioni dei diritti umani da parte della Giunta, e sollecitarla a rilasciare tutti i prigionieri politici, non è altro che una ‘raccomandazione’. Non pensa sia troppo poco?
“Si sa che le Nazioni Unite si basano sulla regola del consenso che tra l’altro è esposta al diritto di veto. E’ quindi difficile se non impossibile adottare delle misure che non abbiamo un totale consenso. E’ stata però approvata a maggioranza la risoluzione che richiama fortemente il Myanmar al rispetto dei diritti umani. Il Consiglio di sicurezza si è occupato e si occupa di Birmania frequentemente. Anche nei giorni scorsi, con una discussione su un’informazione dell’inviato speciale per la Birmania. Tuttavia in seno ad esso siedono paesi che traggono dalle proposte di Gambari conclusioni e conseguenze ben diverse rispetto alla strategia da applicare. E’ noto che paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e l’Unione europea abbiano adottato delle sanzioni come strumento di pressione sull’autorità del Myanmar sia perché viola i diritti umani, sia per convincerla ad aprire un dialogo con l’opposizione. Ebbene la generalità degli stati asiatici, e non solo la Cina che ha diritto di veto in Consiglio di sicurezza, ma anche Giappone, Indonesia e India, il paese più democratico della regione, sono contrari alle sanzioni e scommettono di più sulla strategia della persuasione. Ma questo non deve rappresentare un limite. Io penso che tutti, sia chi punta sulle sanzioni che coloro che non le vedono con favore, debbano perseguire un unico obiettivo, ovvero l’apertura del dialogo interno, Giunta – opposizione – minoranze etniche, per avviare una discussione democratica che consenta il superamento dell’attuale situazione fino alle elezioni del 2010 che se realizzate in condizioni di regolarità e trasparenza potranno rappresentare l’apertura di una fase nuova”.
L’Europa potrà ritagliarsi un ruolo importante in questa azione?
“Certamente, voglio ricordare che pur mantenendo le sanzioni, l’Europa ha utilizzato anche strumenti positivi. Recentemente una delegazione dell’Ue è stata in Birmania per attivare dei progetti di cooperazione in campo sociale. Non vanno poi dimenticati gli aiuti umanitari per i disastri natuali. L’Unione europea, ad esempio, ha stanziato più di 100 milioni di euro per aiutare il paese a risollevarsi dalla catastrofe causata dal ciclone Nargis. Inoltre in qualità di inviato speciale dell’Ue ho realizzato una serie di missioni e colloqui nei paesi della regione, quali Giappone, India, Cina, Indonesia e Thailandia, dove tra l’altro tornerò a breve, per sostenere l’azione diplomatica di persuasione nei confronti della giunta. Questi paesi sono attori fondamentali della strategia di relazioni che può portare a un cambiamento dell’attuale situazione e alla possibilità di avere davvero elezioni libere nel 2010”.
Cambiando argomento, il presidente Obama ha improntato il suo mandato su una chiara politica estera, nettamente in controtendenza alla precedente Amministrazione? Siamo davvero di fronte a una nuova era per l’America? Gli americani lo sosterranno?
“Il discorso di insediamento del presidente Obama ha onorato le aspettative con cui si guarda al suo mandato. Ci si aspettava un presidente pronto a dire che l’America voleva tornare a esercitare un ruolo di leadership non in modo solitario, ma condividendo con la comunità internazionale tutte le principali scelte che stanno di fronte al mondo, è questo Barak Obama lo ha detto. Ha usato anche un’espressione molto forte “Con i vecchi amici e i vecchi nemici noi vogliamo condividere le scelte per affrontare i grandi problemi che l’umanità ha dinanzi a sé”. Usando quell’espressione ha voluto sottolineare la sua volontà non solo di tornare a condividere con gli alleati le decisioni che l’America intende assumere, ma anche di essere pronto a condividerle con quelli che ieri erano i nemici, quindi una visione dei problemi del mondo che sollecita una comune responsabilità. Non a caso la parola chiave di tutto il discorso del presidente Obama è stata ‘responsabilità’, concetto riassunto in quella bellissima frase, secca e netta, che recita “è tempo di una nuova era di responsabilità”. E’ evidente che Obama sia consapevole degli enormi problemi che l’America e il mondo hanno di fronte e del cambiamento significativo che gli Stati Uniti debbano imprimere in nome di una visione dei problemi del pianeta che sollecita a condividere scelte e responsabilità con tutti”.
Nelle prime ore da presidente Obama ha chiamato Olmert e Abu Mazen. In questi giorni l’esercito israeliano ha completato il ritiro da Gaza, ma ha lasciato alcuni militari ai confini con la Striscia. Siamo di fronte a un ‘cessate il fuoco’ a tempo?
“Intanto credo che vada sottolineato il valore che ha, nel primo giorno del suo mandato da presidente, l’impegno assunto da Obama in prima persona nei confronti della pace in Medio oriente. Evidenzia come l’America, da subito, voglia assumersi le responsabilità necessarie a concorrere a superare la drammatica crisi delle ultime settimane e favorire la ripresa di un percorso politico di pace. La tregua è certamente fragile se non altro perché non deriva da un accordo ma da due atti unilaterali. Da un lato Israele ha deciso di considerare esaurita la propria offensiva e di ritirare le proprie truppe; unilateralmente Hamas ha ritenuto opportuno non continuare con le proprie azioni contro Israele. E’ chiaro che è in queste ore la priorità è consolidare questa tregua, stabilizzarla e renderla meno fragile e fare in modo che sia una tregua, come recita la richiesta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, duratura e rispettata. Ora affinché sia duratura e rispettata è necessario prima di tutto la determinazione della volontà delle parti in conflitto, ma può non essere sufficiente. Può essere necessario, per garantire questa tregua, un impegno della comunità internazionale attraverso osservatori civili, un monitoraggio costante e una presenza consistente, anche di tipo militare, con funzioni di controllo. Io penso che si debba mettere in campo tutto ciò che è necessario per far durare il cessate il fuoco”.
David Grossman, scrive che Israele dovrebbe parlare anche con chi non riconosce i suoi diritti. Anziché ignorare Hamas bisognerebbe sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Pensa che il suo pensiero possa essere condiviso dalla maggioranza degli israeliani?
“Innanzitutto penso sia assolutamente necessario che riprenda subito il confronto tra israeliani e Abu Mazen, che aveva fatto grandi passi nel dialogo con Israele. Si deve rimettere in moto un negoziato che acceleri la definizione di un assetto che possa portare a una soluzione possibile, concreta. Secondo punto, il superamento della frattura tra Abu Mazen e Hamas ha un peso notevole sulla tavola del confronto, tanto è vero che la risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza ha un paragrafo che si augura un nuovo rapporto tra i palestinesi, che superi la rottura che si è prodotta in questi anni tra Fatha e Hamas. Però questo superamento può avvenire solo se c’è un chiarimento politico su un punto sostanziale, ovvero il negoziato con Israele. Hamas ha contestato Abu Mazen e ha fatto il colpo di stato a Gaza perché l’ex presidente aveva accettato di riconoscere Israele e di ritenerlo un interlocutore. Per ricucire un rapporto tra le parti, che unifichi il campo palestinese, è fondamentale chiarire questo punto… e si chiarisce solo se Hamas fa quello che non ha fatto finora e riconosce il diritto di Israele ad esistere. Io penso che bisogna insistere con un’offensiva politica, la comunità internazionale deve spingere e convincere Hamas a fare questo passo. Se lo compie sarà parte del processo di pace. Se non lo fa ne sarà fuori”.
Sulla polemica Santoro – Annunziata, Articolo 21 è intervenuta ribadendo che contrasterà qualsiasi via disciplinare al giornalismo, sempre e comunque. Non crede che sia giusto per la politica fare un passo indietro quando è in gioco la libertà dell’informazione?
“Ritengo giusto che venga rispettato pienamente il diritto di fare informazione e di poter svolgere il proprio lavoro senza interferenze, e quindi non ho detto una parola nei confronti della trasmissione di Santoro. Se poi mi si chiede un parere come cittadino, penso che quella trasmissione sia stata ispirata da una unilateralità e da una lettura della situazione israelopalestinese che non aiuta a comprendere quel conflitto e non concorre a creare un clima che aiuti a riprendere un dialogo tra le parti”.
Fonte: Articolo21
24 gennaio 2009