L’ultima beffa agli immigrati: spunta la sanatoria trappola


Paolo Rumiz


In gran segreto il governo ordina: via chi ha chiesto la sanatoria ma ha un’espulsione alle spalle. La linea dura applicata a Trieste, Rimini e Perugia. Clemenza a Milano, Venezia e Bologna.


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L'ultima beffa agli immigrati: spunta la sanatoria trappola

TRIESTE – Come criminali comuni, magnaccia o spacciatori di droga. Gli immigrati che hanno fatto domanda di sanatoria ma in passato non hanno rispettato un decreto di espulsione vanno rispediti a casa.Non ovunque, ma così, come gira agli uffici stranieri delle questure. Qua e là, alla chetichella, partendo dalla provincia, che nessuno mangi la foglia in anticipo. Uno sì e l'altro no, in modo che tutti restino col fiato sospeso. Funziona così la sanatoria Maroni: inflessibile in alcune province, a maglie larghe altrove. Una dicotomia interpretativa che colora la carta d'Italia come le chiazze del morbillo.

Durezza a Trieste, Rimini, Perugia. Clemenza a Milano, Venezia, Bologna e in altre province. Incertezza ovunque, di conseguenza. La voce si è sparsa e gli immigrati si scoprono a bagnomaria, con un contratto regolare in mano ma senza sapere ancora se saranno espulsi o no. In gran parte africani, gli stessi che la mafia ha preso a fucilate a Rosarno. I più visibili, quelli espulsi più di frequente, dunque più ricattabili e di conseguenza a costo più basso sul mercato del lavoro. L'incertezza del diritto in Italia la vedi sulla pelle degli stranieri.

La storia si gioca negli ultimi sette mesi, da quando parte la sanatoria Maroni. A monte, la contraddizione insita nella precedente legge Bossi-Fini, che all'articolo 14 individua nella mancata ottemperanza all'espulsione l'unico reato veniale del codice per il quale è previsto l'arresto obbligatorio. Come dire: non hai fatto niente, ma ti ficco dentro lo stesso. Di fronte a questa incertezza del diritto, molte organizzazioni vogliono vederci chiaro. I condannati per mancata obbedienza al decreto di espulsione possono fare domanda, sì o no?

La Confartigianato di Rimini per esempio, città che in seguito vedrà espulsioni, pone il quesito al Viminale. Ottiene circostanziata risposta ufficiale via mail in 48 ore: la richiesta si può fare. Data: 23 settembre 2009. Anche il buon senso dice che non può essere altrimenti. Che cosa si deve sanare se non una precedente illegalità? Che senso avrebbe impedire la legalizzazione di coloro che sono stati illegali? Insomma: lasciate che le pecorelle vengano a noi con fiducia.

Tutto sembra mettersi bene. Il ministero raccomanda alle prefetture, che devono istruire le domande, di lavorare con larghezza. Ovunque si instaura un clima di efficienza ecumenica. Traduttori, mediatori culturali, rispetto. L'Italia sembra improvvisamente un altro Paese. Ma attenzione: la raccomandazione del Viminale non avviene per iscritto ma con telefonate dirette a ogni prefetto d'Italia. L'elettore medio non deve sapere che questo governo tratta gli immigrati come persone.

Ma i prefetti non si formalizzano e la macchina s'avvia. Scatta l'emersione. Decine di migliaia di stranieri escono dalle catacombe, trovano datori di lavoro per un contratto, spesso minimale ma sufficiente. Pagano l'Inps e le varie tasse di regolarizzazione. Firmano montagne di carte. Fanno lo stesso i cittadini italiani che li hanno assunti. Ma l'ultima parola spetta alla questura, che deve controllare la fedina degli stranieri.

E qui il clima cambia di colpo. Alcune questure convocano gli immigrati, comunicano il respingimento della domanda e, contestualmente, il decreto di espulsione. Il pollo è lì, si è autoconsegnato con i documenti in mano, e viene caricato su un aereo. La sua colpa è appunto quella individuata dalla Bossi-Fini: avere ignorato la condanna all'espulsione. Il tutto gli viene spiegato senza preavviso prefettizio e senza dar tempo al malcapitato di consultare un legale. Via subito. Il caso di Trieste.

La voce gira, e gli immigrati si organizzano, cercano patrocinio legale. Alcuni consegnano i passaporti ai loro datori di lavoro, non si sa mai. Tutti fiutano il trappolone, temono che la larghezza iniziale sia stata propedeutica alla chiusura successiva. E intanto partono nuove domande al Viminale. Il giornale di Trieste, per esempio, segnala la cosa al ministro, il quale risponde, ma con un appunto anonimo, cioè senza firma, compilato dalla stessa questura.

C'è scritto: la condanna per mancata obbedienza all'espulsione è da considerarsi reato grave, tant'è vero che comporta arresto obbligatorio. La cacciata dall'Italia è dunque legittima. L'esatto contrario di quanto sostenuto ufficialmente il 23 settembre. Ora nemmeno al ministero ci capiscono più niente. Gli uffici cui fanno capo le prefettura ignorano quanto pensano e fanno al piano di sopra gli uffici delle questure. Il marasma è tale che le stesse questure chiedono istruzioni, vedi Pavia e Alessandria. E il ministro risponde con appunti senza firma perché non può sostenere un nonsenso e contraddirsi.

"Noi applichiamo la legge" dichiara il questore di Trieste, il quale peraltro aggiunge subito dopo che il reato in questione "può rientrare" tra quelli ostativi alla concessione della sanatoria. "Può rientrare", si badi bene: non "rientra". Dunque quell'interpretazione è, per sua stessa ammissione, facoltativa. Ed è quanto avviene, per l'appunto, in giro per l'Italia. Chi vuol mostrare i muscoli col ministro espelle; gli altri no. E le prefetture, laddove subalterne alle questure, si adeguano all'anarchia interpretativa. Sulla quale sarebbe ora che il ministro si pronunciasse in prima persona, in nome dello stato di diritto.

Fonte: Repubblica.it

4 marzo 2010

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