L’informazione nell’Era Wikileaks


Guido Scorza - articolo21.org


Julian Assange è in carcere e Wikileaks fa i conti con i “tagli” di risorse economiche e tecnologiche disposti da una serie di soggetti privati sotto la pressione politica della diplomazia internazionale. Quello che sta andando in scena è l’epilogo della tragedia della libertà di informazione!


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L'informazione nell'Era Wikileaks

Julian Assange è in carcere e Wikileaks fa i conti con i “tagli” di risorse economiche e tecnologiche disposti da una serie di soggetti privati sotto la pressione politica della diplomazia internazionale.
I Governi di decine di Paesi al mondo – in testa proprio quelli che hanno, sin qui, indossato l’abito di Nazioni democratiche e paladine della libertà di informazione – manifestano soddisfazione dinanzi a tali notizie che rivendicano, addirittura, come un successo della propria attività diplomatica.
Il Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini si è, persino, spinto a dichiarare che l’arresto di Assange significherebbe che l’operazione di “accerchiamento internazionale” ha funzionato.
Siamo al paradosso.
In realtà c’è davvero poco da festeggiare e c’è, invece, molto di cui essere preoccupati.
Quello che sta andando in scena è, infatti, l’epilogo della tragedia della libertà di informazione.
La diplomazia internazionale sta affermando un principio che travolge la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto ad un giusto processo, sanciti nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino ed in centinaia di carte costituzionali in tutto il mondo.
I Governi di decine di Paesi, tra i quali il nostro, stanno, infatti, sostenendo che il diritto al segreto di pochi (n.d.r. ma i sancito in nessuna carta costituzionale) dovrebbe prevalere sul diritto a sapere dei più e che per difendere il primo sarebbe legittimo celebrare un processo politico contro un singolo cittadino al di fuori di ogni regola di diritto e senza neppure preoccuparsi di contestare all’imputato le accuse che gli vengono mosse.
E’ sintomatico, al riguardo, l’atteggiamento del Ministro Franco Frattini che, dinanzi alla notizia dell’arresto di Assange in Inghilterra per un presunto stupro consumatosi in Svezia, avverte l’esigenza di manifestare soddisfazione, di qualificare quanto accaduto come una “fortuna” e di rivendicare, addirittura, all’attività di “accerchiamento” della diplomazia internazionale, il risultato.
Quale sarebbe la fortuna? La circostanza che un cittadino australiano è stato arrestato in Inghilterra per delle ipotesi di reato di stupro, contestategli in Svezia e, ancora tutte da accertare, in ragione della pressione politica che la diplomazia internazionale ha fatto affinché ciò accadesse?
Personalmente faccio davvero fatica a condividere questa conclusione.
Proviamo, tuttavia, ad andare oltre ed a riflettere su quanto sta davvero accadendo.
Cominciamo dal principio.
Nessuno Stato ha, sin qui, formalizzato alcuna accusa contro Julian Assange e Wikileaks e la possibilità che ciò accada appare davvero remota tanto negli Stati Uniti che nel resto dell’occidente.
Sotto un profilo strettamente giuridico, d’altra parte, la posizione di Wikileaks è identica – ed anzi, probabilmente, ancor più difendibile – di quella delle decine e decine di testate che negli ultimi mesi hanno analizzato, selezionato, pubblicato e ripubblicato i files di Wikileaks.
La condotta di Wikileaks è identica a quella tenuta per decenni dai pochi media tradizionali che hanno saputo e voluto fare giornalismo d’inchiesta e raccontare al mondo la verità.
Assange e Wikileaks, negli anni ’70, certamente non c’erano eppure ciò non impedì che lo scandalo Watergate determinasse le dimissioni del Presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon.
Impossibile ipotizzare che il Governo di un qualsiasi Paese, sulla carta, democratico, decida di trascinare sul banco degli imputati una dozzina dei più blasonati media internazionali.
Nessuno, sin qui, ha contestato l’autenticità dei documenti pubblicati e, conseguentemente, la veridicità dei fatti che essi raccontano senza, peraltro, lasciare spazio alcuno – a differenza di quanto accade normalmente nei media tradizionali – a deduzioni, interpretazioni ed ipotesi. Wikileaks non ha trafugato alcun documento, non ha violato alcun sistema informatico per accedervi né ha pagato alcuno perché lo facesse al suo posto ma si è, invece, limitata a pubblicare documenti fornitile da fonti da essa ritenute affidabili e poi dimostratesi, effettivamente tali.
Tutti i documenti pubblicati attengono a circostanze di rilevanza pubblica con la conseguenza che Wikileaks ed i giornali che hanno selezionato e ripubblicato i files, non hanno fatto altro che esercitare il diritto di cronaca.
E allora? Tanto rumore per nulla?
L’affaire Wikeleaks ha messo a nudo la debolezza e fragilità della diplomazia internazionale ed ha osato sfidare – vincendo – regole non scritte in nome delle quali il Governo della cosa pubblica è stato sin qui gestito utilizzando in modo diffuso e quasi generalizzato il segreto. Il Re è nudo e, difficilmente, potrà tornare ad indossare la sua armatura, si direbbe con espressione ricca di enfasi ma che mai, come in questo caso, riflette quanto effettivamente accaduto.
Assange ed i suoi hanno platealmente dimostrato che nel XXI Secolo, in quella che Jeremy Rifkin chiama l’Era dell’accesso e che, meno prosaicamente, l’Unione Europea definisce società dell’informazione, non c’è segreto che possa ambire a restare tale per sempre. La sicurezza dei sistemi è una condizione di eterna ambizione ed aspirazione ma giammai uno stato di fatto e la fedeltà degli uomini, ad altri uomini, alle leggi, alle regole, alla patria o, piuttosto, ai principi è inesorabilmente sfidata dal tempo e dagli eventi.
Oggi basta una falla nella rete sociale o tecnologica alla quale il segreto è affidato perché il numero di persone tra le quali esso era destinato ad essere condiviso, sia moltiplicato migliaia di volte in un intervallo di tempo breve quanto il battito di ali di una farfalla.
Serve un nuovo approccio alla gestione dell’informazione, solo un radicale ripensamento del rapporto tra pubblico e segreto che lo ribalti, può garantire ai Governi stabilità ed immunità dinanzi ad episodi rispetto ai quali quelli che si stanno consumando in queste settimane, sembreranno, presto, solo copie sbiadite.
I Governi e la diplomazia internazionale devono abituarsi a convivere con la trasparenza e rendere il segreto – che sin qui è stato la regola – un’eccezione a cui ricorrere con straordinaria parsimonia.
Ne saranno capaci? Accetteranno di rassegnarsi a questa regola? Le reazioni registrate sin qui, inducono, purtroppo, a ritenere il contrario.
E’ l’abuso del segreto come strumento di Governo il responsabile ultimo della fragilità che, in queste ore, stanno mostrando gli uomini ed i Governi più potenti del mondo nell’immaginario collettivo.
Il responsabile di quanto sta accadendo, non è Julian Assange o Wikileaks ma la perversa idea che il funzionamento della diplomazia internazionale o il Governo di un Paese potessero aver bisogno davvero di mantenere segreta la speciale relazione tra il nostro premier e Vladimir Putin o, piuttosto, l’arcinota follia che, da decenni, guida la mente del leader libico Gheddafi.
Dinanzi a simili ingenuità ed errori di calcolo, dinanzi all’evidente sopravvalutazione del proprio apparato di sicurezza e della propria intelligence ma, soprattutto, dinanzi alla straordinaria sottovalutazione del fenomeno internet, persino, da parte della nazione che vi ha dato i natali, studiandola, appositamente perché garantisse la comunicazione tra nodi addirittura in caso di un evento bellico, l’indice che la comunità internazionale – con davvero poche eccezioni – sta puntando contro Julian Assange ed i suoi server, appare puerile, infantile, proprio del ragazzino che sorpreso con le mani nel barattolo di marmellata, gioca la sua ultima disperata carta, tentando di additare come responsabile il suo compagno di banco.
Assange non è un eroe moderno ma, oggi, difenderlo almeno dal processo politico promosso dalla diplomazia internazionale, significa difendere i confini del nuovo spazio pubblico dell’informazione dalle indebite aggressioni dei Governi che, per ovvie ragioni, preferirebbero che tale spazio avesse, ancora nel XXI secolo, gli stessi ristretti confini che esso ha avuto sino a qualche decennio fa.
Tecnologia, globalità e informazione possono costituire le pietre angolari della democrazia che verrà ovvero di quella che, per molti di noi, potrebbe rappresentare la realizzazione di un’antica aspirazione e che per le nuove generazioni, forse, potrebbe addirittura essere il punto di partenza verso il raggiungimento di nuovi e più ambiti traguardi.
Non bisogna permettere che l’interesse di pochi alla perpetuazione della regola del segreto abbia la meglio sull’interesse dei più alla regola della libertà di informazione e della trasparenza.

Fonte: Articolo21

8 dicembre 2010

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