Kenya, nazione incompiuta
Nigrizia.it
L’odio ancestrale è una possibile lettura dell’incendio kenyano. La più diffusa e utilizzata da media e analisti in queste settimane post-elettorali, che hanno avvolto il paese in una spirale di violenza. Ma il ricorso all’interpretazione etnicista è la sola? Dev’essere la prevalente?
Per noi, quella esplosa in Kenya resta una crisi politica e sociale, alimentata anche dalle differenze etniche.
È vero, la campagna elettorale ha trasformato la mappa tribale del paese in mappa politica. Molti kenyani sono apparsi
imprigionati in una logica etnica, che li ha costretti a esprimere fedeltà alle persone della propria “famiglia”, indipendentemente dai loro reati o errori.
Tuttavia, l’odio atavico non spiega tutto. Anzi. Il paese, oggi in preda all’incertezza, era andato al voto pieno di speranze, convinto che le vecchie forme di potere stessero per crollare. Speranze imprigionate per troppo tempo in strutture costruite da una classe politica vecchia e inadeguata.
Quest’anno il Kenya indipendente compie 45 anni. Ma in tutto questo tempo ha finto di essere un’unica nazione. Il sogno dell’“era kenyattiana” s’è infranto. Quello adottato è solo un nazionalismo imperfetto e incompiuto. Siamo di fronte a un paese dall’identità nazionale incerta. Regnano le dinastie, che ridistribuiscono all’interno della propria corte le fette di potere e di denaro.
I coinquilini entrati in conflitto tra loro, Mwai Kibaki e Raila Odinga, appartengono a queste diverse caste. I tatticismi e i divieti reciproci, che i due hanno imposto dal giorno in cui la violenza è diventata un’attrice delle vicende kenyane, ci dicono che Kibaki e Odinga hanno guardato più agli interessi privati e alle lotte di potere che al bene del paese. «Più che di scontri etnici, si tratta di uno scontro di classe.
Prova ne sia che la violenza è scaturita negli slum e nelle zone povere del paese», la chiave fornita da Arthur Muliro, kenyano, da più di dieci anni vicedirettore della Society for International Development, che in uno studio sul livello di disuguaglianza degli stati africani piazza il Kenya al quinto posto.
Probabilmente, non è molto lontano dal vero chi afferma che le reali “tribù” in questo paese sono solo due: quella dei poveri e quella dei ricchi. Dualismo che disegna un tessuto sociale disgregato. Una spaccatura profonda.
Non aveva forse alimentato questo sogno di rinnovamento e di unità l’ascesa alla presidenza di Kibaki nel 2002? Non doveva rappresentare la fine di una dittatura mascherata, rappresentata dai 24 anni di regno di Daniel arap Moi? La candidatura del kikuyu Kibaki — condivisa da una larga fetta di partiti dell’opposizione — doveva rompere il vaso dei favoritismi che si erano perpetuati fin dagli anni ’60 a favore di una certa classe dirigente.
Ridistribuzione del potere (con una nuova costituzione) e lotta alla corruzione, i cavalli di battaglia del neo capo di stato. Traditi nei cinque anni successivi, nei quali il paese è apparso, per l’ennesima volta, ostaggio del suo presidente. E non solo perché Kibaki s’è inebriato con i profumi del potere.
Ma perché è stato imbrigliato, nelle sue scelte, dalla cosiddetta “mafia del Monte Kenya”, fatta d’intrecci politico-affaristico-criminali, che impedisce un vero cambiamento nel paese. Così, la corruzione ha continuato a farla da padrona (si parla di un miliardo di dollari stornati dalle casse dello stato e finiti nelle tasche degli “amici” di Kibaki).
Fino al punto che due ministri chiave dell’esecutivo, quello delle finanze e quello della giustizia, sono stati costretti a dimettersi, travolti da gravi scandali finanziari. Ma poi reintegrati dallo stesso presidente, quando le indagini su di loro non erano ancora state chiuse. Nel disprezzo delle regole democratiche. Così, l’economia del paese continua a rimanere nelle mani di una ristretta cerchia di persone legate al governo.
Il populista Odinga, a parole, voleva spezzare proprio questo grumo di potere. Ma la caccia al kikuyu — seguita ai risultati elettorali e, di fatto, da lui avallata — ne ha offuscato l’immagine.
Si fa fatica, ora, a spegnere quei focolai di violenza accesi dalla fine di un’illusione. Le vie del compromesso sono lastricate di problemi. Ma il Kenya non può restare “incendiato” per molto tempo.
Non è nell’interesse né delle grandi nazioni né dei paesi confinanti. L’Occidente, che per decenni ha coccolato Nairobi, non può accettare la destabilizzazione di quest’ex colonia britannica. Già ci sono troppi problemi nel Corno d’Africa e nel Sudan per poter anche solo ipotizzare l’apertura di un nuovo fronte in Kenya.
L’instabilità, inoltre, non sarebbe un bel ricostituente per gli interessi economici occidentali nel paese. Infine, anche Kampala, Kigali e Bujumbura guardano con terrore al perdurare della crisi kenyana, visto che un quarto del Pil dell’Uganda e del Rwanda e un terzo di quello del Burundi passano per il Kenya.
Così, se dovesse fallire anche il tentativo dell’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, di trovare una composizione alla ferita aperta, Nairobi correrebbe il rischio di sanzioni, con l’Unione europea pronta a rivedere le sue relazioni con il paese.
Ue e Onu potrebbero assumersi il compito di supervisori di una transizione pacifica, in attesa di nuove consultazioni elettorali. Nel frattempo, si potrebbe riprendere in mano quella riforma costituzionale che prevedeva l’introduzione della figura di un primo ministro forte, per togliere potere e influenza al presidente. Riforma fino a ora sacrificata sull’altare del dio potere.
Fonte: Nigrizia.it
Febbraio 2008